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Vi invitiamo a leggere questo divertente racconto inedito che si svolge in un quartiere di Lubiana …

Il rovente caso Bežigrad

 Primo capitolo

 

«Proprio cosí, signorina ispettrice. Li ha ritrovati messi in quella maniera indecorosa la donna delle pulizie, Stanka Ribič, che ha la chiave della cantina».

«E a che ora esattamente di stamane, Benko?»

«Mh… un attimo… me lo sono segnato», l’agente Bogdan Benko prende a sfogliare il taccuino che sta tenendo sotto il braccio, «ecco: lei ha detto che erano le sei e tre quarti. Circa, non esattamente, ché la donna non porta l’orologio».

«Dunque lei il vecchio lo ha liberato alle sei e tre quarti. E voi, quando siete arrivati sulla scena del crimine?» chiede Alina Ptuj con piglio inquisitorio.

«Be’, la domestica ha telefonato al centralino del commissariato alle sette e dieci e alle sette e mezza io e il collega Tuš eravamo lí».

«Ah. E ti sembra tutto normale?» scandisce secca l’ispettrice.

«Gli orari dice? L’unica cosa normale di tutta la faccenda, se mi permette».

«Seguimi: cosa ha fatto la domestica durante quei venti minuti che sono passati fra l’ora in cui ha trovato il suo padrone nudo come Adamo, legato come un salame ed appeso al gancio dello scantinato, con una macchina tosaerba spaccata a martellate a far da contrappeso, e l’ora in cui lei stessa ha chiamato qui in commissariato? Mi hai seguíto Benko, vero».

«Be’, lei prima ha liberato il padrone, lo ha aiutato a rivestirsi, vista l’età, poi, accertatasi che stesse bene, gli avrà preparato un caffè, infine… ecco… ’mbè…»

«’Mbè, si saran messi a discorrere di politica, società, costume…»

«Costume, certo…» annuisce Benko quasi allegro per la concordia dimostrata dalla superiore.

«Ma fammi il piacere, imbecille!» sbotta l’ispettrice Alina Ptuj alzando di scatto le mani al soffitto dell’ufficio. «Non vedi che quella domestica è reticente? Te le bevi tutte, tu, le panzane che raccontano i cittadini comuni mortali, ovverosia i delinquenti potenziali di questo mondo?»

«…» l’agente Bogdan Benko è pietrificato e risollevato allo stesso tempo: ah mi pareva strano – pensa – che oggi fosse cosí tranquilla la capa: siamo alle undici e ancora non mi aveva insultato.

«Taci, sí, taci ch’è meglio. Passa qua», dice lei brutalmente mentre gli carpisce il taccuino degli appunti sbattendolo sulla scrivania. «Su, vai a prendere tutti e due, la vittima e la sguattera e portameli qua ché li devo interrogare per bene, mica come hai fatto tu, prima che arrivassi io a mettere ordine: avete parlato di filosofia teoretica o storiografia medievale?»

L’agente però è già svanito oltre la porta a vetri. Speriamo che non se ne siano andati, pensa dirigendosi verso la sala d’aspetto del commissariato. Giuntovi «Signora Stanka Ribič e signor Rolf Šnajder?» chiede goffamente, «l’ispettrice che si occupa del vostro caso vi aspetta, seguitemi prego». I due anziani, mezzo dormienti, si alzano dal divanetto non senza sforzo e in breve sono di fronte ad Alina Ptuj:

«Buongiorno. Anche se il collega Benko (esci pure Benko) ha già parlato con voi, sono spiacente di dovervi chiedere di ripetere tutto. Iniziamo con lei, signor Šnajder. Mi racconti dal principio, la prego, questa sua brutta esperienza».

«Mah», tituba il vecchio sull’ottantina andante, levando gli occhi celesti come se pregasse o constatasse un aumento delle patate al supermercato, «io non mi son mica accorto di niente. Prima dormivo nel mio letto, poi, d’un tratto, un doloretto al petto mi ha fatto aprire gli occhi e… stavo cosí».

«Specificando…» chiede Alina con calma.

«Nudo no?… tre quattro giri di corda attorno al torace, appiccato sul gancio della cantina, coi piedi a una metrata da terra».

«Non ricorda proprio nient’altro? Non ha visto nessuno nell’ambiente?»

«Sí. Ho subito visto il mio tosaerba massacrato. È per questo che ho urlato. Solo per questo, certo, ovvio».

«Il signor Šnajder possiede quella macchinetta dal…» si intromette la domestica.

«Per favore, con lei parlerò dopo», la interrompe l’ispettrice.

«Ma ha visto come l’avevano combinato, quei disgraziati?» ruggisce il vecchio, «a martellate, perdio! A martellate l’hanno deturpato! Che dolore!»

«Capisco», partecipa la Ptuj. «E dopo quanto tempo che lei gridava, è giunta la qui presente signora Ribič a slegarla?»

«Poco, pochissimo». Taglia corto lui.

«Lo sa che il signor Šnajder se lo portò anche in viaggio di nozze, a Belgrado, signora poliziotta?»

«Il tosaerba, ho capito, ma dopo, signora, con lei parlerò dopo», ripete l’ispettrice, «ed ora mi dica, signore: lei vive da solo nella sua villetta sulla Staničeva ulica, angolo Einspielerjeva, giusto?»

L’interrogato annuisce sicuro: «La casa la comprai nel gennaio dell’Ottantuno, dunque sto là da solo a partire da allora: ventisei anni esatti, ora che siamo al nove gennaio del Duemilasette».

«Il signor Šnajder mica è fesso: non si è risposato, sa?»

«Dopo, signora Ribič, dopo toccherà a lei dico. E conoscerà tutto il quartiere di Bežigrad, ovviamente, signor Šnajder».

«I vicini che posso, sí. Prima tutti, li conoscevo, per filo e per segno. Oggi un po’ meno. C’è troppo viavai», precisa lucido l’uomo.

«Ovviamente…» insinua l’ispettrice «…ci sarà anche qualche piccolo bisticcio, qualche vicino maleducato… che parcheggia come gli capita – magari proprio nel posto che lei occupa da sempre, – non pulisce il marciapiedi, non saluta, ruba le mele, o le pere, dell’albero che sporge fuori dal recinto, dorme la domenica fino a tardi…»

«Questo ormai è all’ordine del giorno. Non ci faccio piú caso. Non mi metto a litigare con i morti di sonno che hanno invaso, a frotte, il quartiere e trascurano la pulizia e l’efficienza… per carità, mica cerco guai, io».

«E ieri sera, lei ha cenato da solo… non ha ospitato nessuno…»

«Come sempre».

«Neanche mettiamo ieri mattina».

«Ieri non ho ospitato MAI nessuno, signora ispettrice».

«Ed è andato a letto da solo, ieri sera».

«Uff. Sí».

«Deve rompersi un sacco, lei. Be’… dunque in casa sua non c’era PROPRIO nessuno oltre a lei, stanotte».

«Porca miseria, no. Neanche il cane, Cruel, che ho portato da mia cugina in Germania qualche anno fa perché soffriva di solitudine, lei non il cane. E una volta ha quasi sbranato il postino, il cane non mia cugina. E non mi rompo affatto. Curo il giardino, io, curo! Lo irrigo, concimo e spunto ogni sabato e domenica alle sette e mezza in punto. Come un figlio viene trattato, mi creda».

«Ma lei è certo, signor Šnajder, di non avere nemici in zona?»

«Nemici io?»

«Uno che aprendo, non si sa come senza forzarlo, il portone, le entra in casa di notte, la riempie di sonnifero, la spoglia e la appende al soffitto come un prosciutto del Carso, sa…»

«No, no, no! Lei ispettrice è fuori strada. Secondo me è il mio tosaerba, non io, ad avere un qualche nemico: lo vedo, lo vedo bene: è un individuo sadico, insensibile, rotto a qualsiasi corruzione morale, un essere DISORDINATO, fannullone, anzi del tutto abulico disposto a lasciare che il proprio giardino diventi una giungla ospitando bacherozzi, ratti, serpenti boa, tigri leopardate, mammut elefantini, piante carnivore, cantanti ed altre bestie da giardino zoologico o museo di scienze naturali».

«Ha proprio ragione il signor Šna…»

«Zitta tu!» batte i pugni sul tavolo l’ispettrice. «Ma lei Šnajder, sia serio! Ha appena dichiarato di NON avere nemici e adesso se lo immagina, il pigro attentatore, il terrorista martellatore di tosaerba. Chi è, avanti, un nome. MI FACCIA UN NOME, Šnajder!»

«Lo immagino ma non lo conosco, mi dispiace», confessa mogio l’uomo.

«Capito, capito. Signora Ribič, adesso, ADESSO mi dica!» esonda Alina Ptuj: «dove abita lei?»

«A Mirje».

«Dall’altra parte del centro. E da quando sta a servizio in casa Šnajder? IN SINTESI eh, in CIFRA SINGOLA!»

«1983».

«Brava. Continuiamo cosí. Lei, ieri, è stata a casa del signor Šnajder?»

«No. Assolutamente no». Afferma la domestica con voce da annunciatrice radiofonica della seconda guerra mondiale.

«E dove è stata, invece, ieri?»

«A casa, poi, la sera, al circo, infine a casa di nuovo. Stop».

«Qualcuno può testimoniarlo?»

«Io, no?!» interviene Rolf Šnajder.

«Lei era al circo con la sua dipendente?»

«No».

«Allora taccia, perbacco!»

«Accidenti», ribatte indispettita la serva, «al circo ero con mio marito Fritz Rič Ribič, i miei figli Prt, Sgrt e Trnk con le mogli Bela, Tela e Fela, e anche i miei nipotini Nal, Pal, Sal e Gal, oltre alle amichette Maja, Taja, Gaja e…»

«Va bene, va bene. Ma che, lei nel circo ci vive?»

«…»

«E prepara lei le bevande e i pasti per il signor Šnajder, abitualmente?»

«No, faccio solo le pulizie due volte a settimana, niente piú».

«Mi sto annoiando, signori. Ditemi chiaramente due cose: chi ha le chiavi di casa Šnajder e se avete dei sospetti, anche lontani e vaghissimi, su qualcuno in particolare».

I due anziani si guardano stupiti e «No, le chiavi le abbiamo solo noi e di sospetti non ce ne viene in mente nessuno», ammettono rassegnati all’unísono.

«Andate pure. Indagheremo», conclude Alina Ptuj con un guizzo della mano destra.

Usciti i vecchioni, la donna preme il bottone dell’interfono:

«Tuš, sei lí?»

«Sergente Dalibor Tuš ai suoi ordini come sempre, signora ispettora!», enuncia la rocciosa voce del giovane.

«Il mio grado è ispettrice, Tuš, quante volte te lo devo dire… mica sarai uno di quelli che chiamano poeta la poetessa, eh. Vabbè senti: telefona immediatamente al Dipartimento Nazionale di Pubblica Sicurezza, chiedi del direttore Jernej Dolenc e passamelo in linea. Attendo due minuti e trenta secondi a partire da adesso, poi ti slego dietro i cani antidroga, che son digiuni da ieri sera».

 

 Secondo capitolo

 

Mezz’ora piú tardi, l’ispettora… ehm l’ispettrice Ptuj riappende la cornetta del telefono ed è tosto seduta davanti al computer, sempre sola nella stanza. Lo accende. Fuori, da un po’, le nuvole grigie hanno lasciato spazio al sole, ma lei, fumando nervosamente un grosso sigaro cubano, si alza e va in fretta alla grande finestra, abbassa le tapparelle e torna sulla poltroncina girevole, iniziando a battere sulla tastiera finché, all’ora del tramonto, non appare sullo schermo luminoso il seguente testo:

Come supponevo, dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza mi hanno detto che questo non è il primo, ma addirittura il terzo caso di aggressione notturna avvenuta nel quartiere di Bežigrad tra l’anno scorso e questi primi giorni del Duemilasette.

Primo episodio:

risale a due mesi fa. Un giovane dipendente comunale di nome Boštjan Križ, vivente sulla Einspielerjeva ulica al numero tredici, si è svegliato la mattina presto di martedí 10 novembre con i brividi sulla pelle: stava da chissà quando senza vestiti sul terrazzino del suo appartamento, al terzo piano della palazzina, legato e imbavagliato. A otto gradi centigradi. Piú tardi ha scoperto che il suo tagliaerba automatico, di marca Grasskiller, penzolava, attaccato ad un cavo elettrico, fuori dal medesimo balcone, ridotto in condizioni da far pietà. L’uomo ha preferito denunciare il fatto alla polizia di Vrhnika perché è residente ufficialmente in quel comune, ecco perché noi a Lubiana non ne sapevamo niente. Particolari strani: l’aggressore in quel frangente si è recato nel seminterrato, dov’era ricoverato il marchingegno, lo ha guastato a mazzate in loco e poi lo ha portato su per impiccarlo fuori dal terrazzo del terzo piano. Ci deve aver impiegato del tempo e avrà anche fatto baccano, ma in piena notte è plausibilissimo che non sia stato visto né sentito (causa muri e solai molto spessi) dagli altri inquilini dello stabile – che ha in tutto sette affittuari. Nessuna delle tre porte che l’intruso ha dovuto aprire era stata manomessa. Križ ha dichiarato di non aver ospitato nessuno per la notte e neanche durante l’intero giorno precedente e di essere l’unico possessore della chiave dell’appartamento, mentre ovviamente quelle del portone principale e della cantina comune le hanno anche gli altri. Il giovanotto è celibe. Non ha ricevuto minacce e non ha nemici. Sul tavolo della cucina aveva posato del denaro che non è stato rubato (cosí è stato anche per gli altri casi: nessun furto). Nel palazzo non sono presenti pregiudicati. La sera prima è stata descritta da Križ cosí: una tisana dopo cena e via a letto, come da routine. Però qui, a differenza di Šnajder che sta in una villetta monofamiliare, possiamo sospettare i coinquilini, e il commissariato di Vrhnika appunto aveva iniziato a tenerne d’occhio specialmente uno, tal Avgust Borlitz: un nanerottolo di una certa età, col quale Križ aveva litigato anni prima a causa di una festa di bambini eccessivamente rumorosa. Križ l’aveva tenuta in casa per il compleanno della nipotina e Borlitz era andato su tutte le furie: essendo abituato ad ascoltare l’hard rock del figlio, Vivaldi lo infastidiva. Da allora non si rivolgevano piú la parola, solo buongiorno e buonasera a denti stretti. Purtroppo, però, Borlitz per la notte del delitto riuscí a presentare un alibi a prova di bomba atomica: sin dalla mattina era stato in viaggio, su un treno direttissimo per Berlino – lo avevano visto il bigliettaio della stazione di Lubiana, il controllore del treno e perfino gli agenti della polizia ferroviaria tedesca, saliti a bordo di notte per effettuare dei normali controlli antirapina.

Secondo episodio:

è avvenuto quasi un mese dopo, cioè sabato 7 dicembre, e piú precisamente alle ore 23 e 40 di quel giorno, quando Darja Pucer, residente con marito e figli in una casa quadrifamiliare sulla Staničeva 10, sente dei rumori di lamiera percossa provenire da uno dei garage, incorporati nell’edificio al piano seminterrato e ai quali si accede dall’esterno facendo il giro del modesto palazzo. Poiché al momento era sola in casa e, in pigiama rosso pomodoro, stava leggendo a letto delle pratiche burocratiche – la sua passione di sempre – Pucer si era insospettita, poi rivestitasi in fretta era uscita a vedere, con in mano una potente torcia elettrica, ma era inspiegabilmente svenuta in giardino, poco prima di giungere alla porta basculante dell’autorimessa. A risvegliarla la mattina, ad alba appena sorta, erano state le grida di soccorso della grassa coinquilina Olga Mesmerovič, ottantanove anni, zitella ex partigiana antipatica a tutto il vicinato, vivente da sola in uno dei due appartamenti sopra i garage. Accorsa, la Pucer se l’era cosí trovata davanti legata al giovane Urban Vič, ambedue nudi come vermi, schiena contro schiena, dentro il garage, al momento privo di autovetture ma occupato da una strana scultura moderna: ben tre falciatrici automatiche, di marca Krauten Vertilger, saldate insieme con michelangiolesca abilità. Anche in questo caso le indagini erano state condotte dal Commissariato di Vrhnika, stavolta, però, perché glielo aveva affidato il Dipartimento, essendo le autorità di Lubiana troppo impegnate in crimini piú gravi.

Nella Sezione Riservata del sito del Ministero degli Interni ho trovato anche il verbale della testimonianza resa dalle tre persone coinvolte: quella Darja Pucer, insegnante cinquantacinquenne in aspettativa per problemi di iperattività mentale, coniugata con Tomislav Fizikič, rude macellaio presso il Mercator della Parmova cesta; l’anzidetta vecchia cicciona Olga Mesmerovič (pseudonimo da partigiana: Scheletrina) e il trentunenne Urban Vič, borioso manager di un’azienda informatica cinese che produce ed esporta uova con pulcini virtuali destinate a ragazzini figli di fessi. Il documento risale all’8 dicembre, il giorno dopo l’evento, e le domande vengono poste da Filip Flop Filipovič, maturo vicecommissario che incredibilmente – grazie credo alla sua innata vena artistica – riesce a tenere testa al trio (che io francamente avrei preso a manganellate sugli stinchi dopo due minuti di colloquio). Lo copincollo qua sotto:

Il vicecommissario Filip Filipovič: «Allora, signori, iniziamo con una domanda generale rivolta a tutti: cosa ne pensate della scultura moderna?»

Darja Pucer: «Ma di che *** di scultura va farneticando, brutta razza di *** e di ***?!»

Olga Mesmerovič: «Ma no, Darja, calmati, su, questo poliziotto è soprattutto un *** faccia di ***: l’ombra capitalistica della polizia del popolo che creammo noi eroi».

Urban Vič: «Ah, quello che nella Cina Orientale suolsi definire un pessimo esemplare di *** nipote di un ***!»

Filipovič: «Noto con piacere che concordate sui valori estetici».

Gli interrogati in coro: «Ma impíccati, Franco! Noi siamo la parte lesa».

Filipovič: «Non mi chiamerei Franco. Adesso a lei, signora Pucer: che rapporto ha con i tosaerba?»

Pucer: «Ottimo, straordinario, eccellente, superlativo, eternamente glorioso! Evviva! Evviva i tosaerba! Che mi falcino anche il marito, un beato giorno».

Vič: «Posso esprimermi anch’io?»

Filipovič: «Prego».

Vič: «Uno di quelli demoliti era il mio. Ci vorrebbe la pena di morte, in questo Paese. Dopo la tortura della goccia, alla maniera del buon vecchio caro Mao Tze Tung».

Mesmerovič: «Tito, Stalin e Miao».

Pucer: «Mao, non Miao, Miao lo pronunciano gli italiani, l’ho studiato a scuola, e per Bau dicono Boa. E via dicendo».

Mesmerovič: «Va be’, l’altro tosaerba insomma, ribadisco che era proprio il mio: di acciaio tedesco, stalinista, indistruttibile, infaticabile e pure spiritoso, sa?»

Filipovič: «Intende?»

Pucer: «La Mesmerovič la capisco perfettamente: dice che a saperli tradurre, interpretare, i tosini, i cari tosarelli, sono dei fedeli compagni, dei… dei leggiadri poeti, come le casse dei supermercati di una volta e anche piú ispirati… ecco! Li sento, io: vrrrrrrrr… trrrrr… tratratrà… trutrú trutrú… trichetracchetricchetrà… ah che ritmo! Che spirito lirico! Che varietà di effetti sonori! E ora anche il mio è finito in quella mostruosa pseudoscultura: un frankenstein!»

Filipovič: «Già. Mi sembra chiaro che nel vostro quartiere si aggiri un pazzo, signori miei».

Mesmerovič (spostando di lato una gamba che peserà sui cinquanta chili): «Uno solo?» alza la voce: «ma qui è pieno di pazzi, caro poliziotto! La settimana scorsa mi sono accorta che la mia bilancia era stata sabotata… chissà per quanti anni mi ha ingannata ogni mattina, con quei suoi assurdi centodieci chili fissi».

La Pucer, tragicamente: «Assassino. Un assassino calzato e vestito a spasso per la Staničeva».

Annuiscono tutti con solare soddisfazione.

Filipovič: «Ebbene, datemi una mano ad identificarlo, cosí lo metteremo in condizione di non nuocere piú all’uguaglianza, all’arte e alla poesia, per molti anni. Chi potreste sospettare a Bežigrad? Sappiate che ha già colpito un mese or sono. Deve essere uno del quartiere per forza».

Vič: «Perché, voi commissario non crederete mica che qualche sloveno possa giungere ad odiare fino a questo punto uno dei massimi risultati della modernità, del lirismo realista e della tecnologia applicata alla natura erbosa. Per carità! L’assassino dev’essere senz’altro uno straniero –  non un cinese naturalmente: io con loro ci lavoro e so che raffinata sensibilità abbiano per queste cose».

Filipovič: «Stringendo, signori: suggeritemi qualche nome. Ricordatevi che forse sono piú persone, non solo una».

Mesmerovič, depressa: «Ah, una congiura straniera contro il comunismo e la libertà… però… ohimé… non saprei dire chi».

Il vicecommissario Filip Flop Filipovič constata coi suoi propri occhi che il giovane e semicalvo (ma di certo moro) Vič e la fintorossa Pucer scuotono la testa, altrettanto impotenti, dunque decide di terminare il colloquio. Tutti costoro scelgono di sporgere denuncia contro ignoti e accettano un biglietto da visita del vicecommissario, in caso nel futuro avessero notizie utili all’indagine da comunicare alle Autorità di polizia. Fine verbale, redatto dal caporale Kajetan Dongo.

Seguono le firme.

Mh… – approva Alina Ptuj, lo sguardo concentrato su quanto ha appena finito di riportare nel file. Spegne il suo sigaro nel vecchio portacenere rosso della Birra Union. Vede dall’orologio a cucú dell’ufficio che si son fatte le venti, tende l’orecchio e certifica che il commissariato è ormai diventato una specie di stand by a causa del personale ridotto all’osso; infine articola pensiero: Dunque, Filipovič un mese fa ha dato il suo biglietto a quei tre. Stai a vedere che… e compone un numero sull’apparecchio telefonico della scrivania:

«Filip? Sono Alina Ptuj, ti ricordi? Spero di non disturbarti».

«Scherzi? Che piacere risentirti… sei sempre a Lubiana?»

«E chi mi sposta da qui. Anzi… ho messo le mani su un caso che hai seguito proprio tu: quelle due aggressioni notturne a Bežigrad, sai… il maniaco delle falciatrici automatiche. Ce lo hai ancora?»

«Ufficialmente sí, ma ora sto lavorando su altra roba. Cosa intendi con ho messo le mani, Alina?»

«C’è stato ieri notte un terzo episodio della serie, solo che stavolta spetta a noi lubianesi, non a voi di Vrhnika, perché il denunciante è venuto qui. Dunque come ci mettiamo, io e te?»

«Boh… ce lo spiegherà la Procura ben presto, credo. Però se vuoi te lo dico subito: mi ero arenato, prenditelo pure, ho altro da fare».

«Ottimo, Filip. Si è poi fatto risentire qualcuno di quei denuncianti? Ci hai potuto tirare fuori altro succo insomma?»

«Chi?… un attimo che faccio mente locale… ah, dici forse Boštjan Križ, quello che, poveraccio, per poco non si prendeva la polmonite sul terrazzo di casa? No, lui no, non l’ho piú risentito».

«E quegli altri, che invece sono finiti nell’autorimessa con tre tosaerba a fare scultura peggio dei cosi di Giò Pomodoro…»

«Due donne maturette e un ragazzotto spocchioso, vero… certo certo: di loro mi si è ripresentata in commissariato, una quindicina di giorni fa, la fintorossa di Capodistria… come diavolo…»

«Darja Pucer, forse?»

«Esatto! Aveva da fare una segnalazione, ma piuttosto imprecisa: uno straniero, nero, che aveva visto passeggiare, la notte del delitto, nei dintorni… uno che vive proprio nella palazzina di fianco alla sua… ma ho verificato: niente africani nelle case della Staničeva. La Pucer è suonata. Pista chiusa».

«Grazie Filipovič. Buonanotte».

Mh… un nero – riflette Alina. – Credo sia il caso di recarsi a fare un bel sopralluogo in quella benedetta Staničeva, per toccare con mano chi ci abita. Domattina, opportunamente mimetizzata, ci andrò a trascorrere un po’ di tempo: se becco il bar di quartiere, quello giusto dove la gente sparla di tutti, sono sicura che qualcosa di africano salterà fuori.

Terzo capitolo

 

Il minuscolo cava bar sulla Staničeva è malmesso e puzzolente di birra e detersivo d’infima qualità alla mandorla quanto basta per ospitare la tribú locale dei pettegoli. Sono le undici e trenta di mattina quando il voluminoso trattore arancione, con rimorchio vuoto, inizia a parcheggiare in uno degli spazi a tassametro proprio di fronte all’entrata, cosí calamitando l’attenzione dei tre ometti presenti nel locale.

«E mo, un bello žnaps è quello che ci vuole», confida apertamente la ragazza, una volta compiuta la delicata operazione e spento il motore, rivolta a uno degli sfaccendati. La muscolosa biondina indossa jeans sporchi di fango e una maglietta gialla di cotone a mezze maniche, come in estate, o in inverno se si fatica sui campi. Scende dal sellino del mezzo agricolo e si infila nel caffè con familiarità, mentre sorride a tutti finché non atterra su uno sgabello davanti al bancone.

«Senta», dice alla cameriera dopo averle ordinato una grappa di pere, «io cercherei per un servizio uno straniero, un nero, che dovrebbe abitare sulla Staničeva ulica… è questa?»

La barista conferma la via «Però io non abito in zona» dice e chiede a voce alta agli ometti, timidamente già tornati ognuno al proprio tavolino: «C’è qualche nero che vive qui sulla Staničeva, gente?»

Silenzio pregno di meditazione dei tre alcolizzati. Poi: «Stranieri ce ne sono, ma di neri non ne ho mai visti nei paraggi», risponde un massiccio baffone vestito come Tex Willer, ossia quello cui Alina aveva rivolto la parola prima. E continua: «magari è nero, sí, ma di capelli, non di pelle… fa lo stesso signorina?», intanto ghigna, compiaciuto dell’audace battuta evidentemente riferita ai suoi crini, ritinti di color ossidiana.

Alina sgrana gli occhi in faccia al Tex, che le si era avvicinato: «Già! Che stupida sono… e mi dica subito, ché io devo lavorare, non ho tempo da perdere sa».

«Al numero dodici ci sta di sicuro un italiano: moro, spettinato, secco secco, con gli occhiali fuori moda da trent’anni… lo vedo uscire dal cancello e passare qui davanti tutte le mattine, a piedi o in macchina. Forse è lui. Ma lei, che servizio deve fare?»

«Potatura alberi, rasatura erba, sistemazione orto. Ha detto che sta al dodici, giusto?», intanto paga il conto, «cioè in quella direzione», e indica davanti a sé la strada che prosegue verso nord mentre ci si sta incamminando.

I campanelli della gentile palazzina beige offrono solo due cognomi, accoppiati nello stesso cartellino, di presumibile italica provenienza: «Mh… Sirmione Satta… sembra uno scioglilingue. E adesso come mi comporto per fargli il test senza che si senta puzza di bruciato? Maledizione… avrei dovuto preparare in anticipo un piano b».

L’ispettrice, mettendo in conto di dover abbordare un nero extracomunitario, aveva infatti congetturato di seguirlo, parlarci, meglio se al bar con l’aiuto di qualche brandy – per capire se veramente fosse un soggetto papabile, – poi scoprirne l’indirizzo di residenza, fotografarlo di nascosto, trovare nazionalità e conferma dell’identità tramite l’Interpol e il Ministero degli Esteri, mettere sotto controllo il cellulare e il telefono fisso e intanto farlo pedinare ventiquattr’ore su ventiquattro dagli agenti Tuš, Benko e… se stessa… finché costui non fosse ricaduto in fallo – di certo provando a deturpare l’ennesimo azzannagramigna dopo averne messo a testa all’in giú il possessore, già denudato s’intende, in soffitta con le trecce d’aglio o tra le foglie di granturco in essiccazione per riempire i materassi. Il movente del negro tosaerbicida? Ovvio: riti zulú o vudú o bubú, per allontanare da sé l’influenza degli spiriti maligni presenti dentro quelle feroci macchinette europee e punirne simbolicamente i proprietari con l’umiliante spogliarello integrale. Alina avrebbe solidarizzato con l’animista ricordandogli anche l’amicizia tra Repubblica Popolare del Congo e Jugoslavia. Una strategia, questa, ora tutta da rivedere, assodato che trattasi di comunitario e per di piú italiano: brutta tipologia umana da incastrare, sa per esperienza, poiché per quanto giovane – la Ptuj ha trentadue anni – ella con dei delinquenti italiani si è trovata diverse volte a combattere, combattere in senso stretto. Inoltre in tutta probabilità l’uomo è anche sposato, visti i due cognomi. Problema aggiuntivo, questo.

Alina, a corto di soluzioni, si accende il mozzicone dell’avana che custodiva in una tasca dei jeans, mentre decide di rientrare in commissariato. Allontanatasi dunque dal portone sta per oltrepassare il muro di cinta della palazzina beige, quando viene superata da un tizio moro sulla cinquantina che, sopraggiungendo da dietro, le lancia un brevissimo sguardo e la saluta in sloveno. Porta degli occhiali antidiluviani e il suo atteggiamento è stranierissimo. Pura cortesia, certo, ma… – pensa la poliziotta – e subito, fermandosi, a voce alta in inglese:

«Scusi, un’informazione».

«Prego» fa l’altro, sempre in inglese, voltandosi verso di lei – l’aveva già sorpassata ed era ormai oltre il cancello.

«Cerco un insegnante di italiano che dovrebbe abitare sulla Staničeva 12. Ma non posso ricordarne esattamente il nome e qui la tabella con il numero civico non c’è. Ho visto sul citofono dei nomi italiani, ma non vorrei sbagliarmi, sa, disturbando qualcun altro…»

L’uomo non se l’aspettava. Sorride, poi, continuando con un brutto inglese: «Questo è il numero dodici, io insegno quella lingua e… be’ mi chiamo Aulo Sirmione. Sto al terzo piano». Punta in su l’indice della destra.

«Aulo», sorride contenta Alina, «ecco, proprio Aulo mi aveva detto il professor Alessandro Paolacci».

«Ah be’, il professor Paolacci lo conosco bene. La avrà indirizzata da me perché lui sta all’università e non ha tempo per le lezioni private. Se vuole venga su a bere un caffè, ho ancora una mezz’oretta libera».

L’appartamento del signor Sirmione – nota Alina prendendo a sorseggiare con prudenza la bevanda, ancora caldissima, in cucina – è quanto di meglio si confaccia ad un soggetto della categoria descritta dal vecchio Šnajder: quella dei dormiglioni scansafatiche che il fine settimana non lavorano in casa, per rimpiazzare il lavoro remunerato altrove con gratuiti aggiustamenti di rubinetti perdenti, riparazioni di lampadari difettosi e… in mancanza d’altro… anche scendendo in giardino a…

«Quando desidererebbe cominciare con il corso di italiano, signora…»

«Ah, scusi: mi chiamo Mateja Dolinar. Be’, ancora sono incerta… forse sarebbe meglio nel tardo pomeriggio della domenica: ogni giorno fino alle sedici sono impegnata nei campi. Lavoro la terra e l’italiano mi servirebbe perché vendo prodotti ortofrutticoli, macchine agricole e attrezzatura per il giardinaggio agli italiani, soprattutto del Nord: Milano, Torino, Erba».

«Erba?», domanda l’ospite, d’improvviso felice come se avesse sentito i numeri vincenti della lotteria.

«Buffo nome di città, vero? Sta vicino a Como. L’Italia la conosco bene, purtroppo invece della lingua so soltanto buongiorno, amore mio e vaf…»

«Ah», la interrompe, «certo, certo: un bel corso di livello post-principianti».

«Credo mi saranno sufficienti dieci lezioni di un’ora per imparare quel che serve ai miei affari: come si dice patata novella, frutta fresca di stagione… vanga, falce…», una pausa, «…tosaerba». E si ferma in attesa guardando la finestra.

«Questa parola inglese non la conosco. E in sloveno come si dice?»

«Motorna kosilnica. Sono quegli aggeggi che servono a rasare il prato. Ne vendo parecchi in Italia… sa… i nostri costano la metà rispetto a quelli di fabbricazione italiana o tedesca. Se glie ne interessasse uno, le faccio un prezzo di favore».

«No, grazie». Agli occhi attenti dell’ispettrice, l’uomo sembra esser entrato fulmineamente in una condizione di profonda meditazione. Bene, bene – riflette rapidamente Alina – e ora cambiamo argomento.

***

«Benko, nel mio ufficio SUBITO!» ordina l’ispettrice Ptuj e spegne l’interfono. Dopo tredici secondi, l’agente si materializza sull’attenti davanti alla sua scrivania.

«Siediti pure. Allora, ieri sulla Staničeva è andata meglio di quanto pensassi: ho pescato il tipo giusto. Un perugino di nome Aulo Sirmione, incensurato, che impartisce lezioni di italiano a domicilio. Solo che adesso si tratterà d’incastrarlo. Io l’ho lasciato chiedendogli, come si usa, il suo numero di telefonino. Se deciderò in favore del suo corso lo chiamerò io. Intanto però noi lo abbiamo messo sotto intercettazione automatica, eh eh».

«Ah, ha deciso di studiare l’italiano, signorina… beata lei. Io so solo buongiorno, amore mio e vaf…»

«Il corso era una scusa per accorciare le distanze», lo blocca lei disgustata, «mi sono ricordata di aver conosciuto anni fa un professore di italiano, tal Paolacci, e ci ho costruito sopra un discorsetto per vedere come reagiva il Sirmione a certe parole-chiave come… tosaerba».

«Tosaerba, corso di italiano… ehm…»

«Non sforzare troppo la corteccia cerebrale per tradurre nel linguaggio dell’era paleolitica tutto ciò che dico, Benko, calmati. Tu obbedisci solo prontamente ai miei ordini e stai a posto con la coscienza: ti sarai guadagnato lo stipendio, chiaro?»

«Chiarissimo, signorina. Ma nell’era paleolitica l’uomo esisteva già?»

«I tuoi antenati di sicuro, Benko. Ora seguimi».

«Dove, al corso d’italiano?»

«Va be’, dài, ascoltami e nient’altro. Sempre meglio di un muro dopotutto sei sempre, Benko. Però non è un complimento: i muri che piacciono a me sono migliori degli uomini, perché sono muti ma hanno orecchie. L’agente Tuš entra in servizio a mezzanotte, giusto?»

«…»

«Ti sei mangiato la lingua, Benko?»

«…»

«Ah, ho capito: cessa pure di fare il muro, mi vai bene anche parlante. Con la paga che passa lo Stato è già tanto se non ragli. Dunque, Benko, gli ordini per Tuš li scrivo io dopo e glieli lascio sulla scrivania. Adesso senti: io e te alle venti precise, cioè fra due ore, agiremo cosí: tu con la tua macchina vai a posteggiarti davanti al cancello d’ingresso della palazzina beige che sta al dodici della Staničeva e resti là dentro, nella macchina non nella palazzina, guardando con attenzione cosa succede intorno al portone, che sta a una decina di metri dalla strada cioè da te. Prendi nota di chi gironzola o passa nel giardino e pure di chi entra od esce dal palazzo… scrivine una descrizione approssimativa, cosí: ore tot, entra un signore decrepito sulla settantina, biondo, denutrito e con la gobba, che poi esce all’ora tot, eccetera. Ci sei fin qui, Benko?»

«Capíto tutto tranne una cosa, capo».

«Dimmi, su».

«Se il gobbo entra alle ore tot, come può dopo, lo stesso giorno, uscire sempre alle ore tot

«Allora il gobbo esce alle ore tut, d’accordo».

«Gli italiani gobbi portano fortuna, vero, capo?»

«Quali italiani gobbi?»

«Il criminale, no?»

«Per niente. Cancella gobbo, Benko. Non esce e non entra. Non esiste. Fatto? Cancellato?»

«…Ehm… sí, capo».

«Dunque procediamo. La Staničeva di notte dev’essere semibuia e pressoché deserta, ma portati un plaid di lana e copritici: l’auto sembrerà vuota ai passanti. Mi avvisi subitissimo col telefonino se l’italiano – questa è la sua foto della carta d’identità, me l’ha data il Comune – se l’italiano dicevo esce da quel portone; in questo caso, appena m’avrai telefonato SOTTOVOCE, devi seguirlo senza che se ne accorga, l’italiano non il portone. Sarà difficile, è un incarico delicato, Benko. Mi raccomando… inventati qualcosa ma non fargli capire niente, all’italiano non al… va be’… io vengo a darti il cambio alle ventitré e dall’una alle quattro mi sostituirà Tuš. Dopo basta, ché anche gli italiani dormono, di notte. Alle quattro e un quarto ci vediamo tutti – tranne l’italiano, se non l’abbiamo arrestato – in questo ufficio per fare un bilancio dell’appostamento. Infine buonanotte. Domani si replica la stessa solfa. Ci scommetto la promozione che mi ha assicurato il commissario per l’anno prossimo che abbiamo individuato il tipo giusto: sapessi che sguardo aveva, quel Sirmione! Secondo me stava già immaginandosi un sistema per entrarmi in casa, addormentarmi con qualche gas soporifero, frantumare tutti i tosaerba presenti nella mia azienda agricola e mettermi nuda legata a un albero, tanto per variare».

«Brava capo! Ottima idea per integrare il salario!»

«Quale idea?»

«Dicono ci si guadagni bene, con i tosaerba».

Quarto capitolo

«Capo…» sussurra Benko nella gelida oscurità della Zastava classe 1984 donatagli dal fratello per le nozze «…capo, mi sente?»

«Smettila di ripetere tutto due volte. Allora?», rimanda Alina eccitata al telefono.

«L’italiano è uscito dal portone in questo momento: dunque adesso sono le ore tut».

«Mh. E cosa fa?», chiede lei e intanto vede che il cucú svizzero dell’ufficio segna le 22 e 10.

«Ha acceso una sigaretta e sta fermo. Lo inquadro bene perché sopra il portone è appena apparsa una luce di quelle nuove che si avviano da sole. Cosa devo fare?»

«Resta immobile in macchina, Benko!»

«E se si muove lui?»

«Non disturbarlo: cerca di vedere dove va, poi seguilo da lontano con la pistola in mano, carica, nascosta sotto il cappotto».

«Ecco, viene verso di me. Ha una faccia spiritata, mamma mia! A piú tardi, capo».

Dopo un secondo lo straniero passa a una metrata dall’auto, si ferma sul marciapiedi poco piú avanti lungo la strada deserta, tira qualche boccata di fumo e lascia cadere la cicca, pestandola. Si guarda intorno e in italiano: «Va be’, io ci vado», dice con fermezza. Si gira e prende a camminare verso l’incrocio con la Einspielerjeva, distante una ventina di metri buoni. Benko esce dalla Zastava e, accostata delicatamente la portiera, gli va dietro a passo felino. Sirmione, ormai sulla Einspielerjeva, la imbocca alla sua sinistra, la attraversa e scompare nel giardino di un palazzo: Benko, accostatosi alla recinzione, può leggere sul cancello rimasto aperto il numero civico 13. È proprio la casa di uno dei precedenti assalti. Cosí decide di entrarvi, pur con i brividi che gli passeggiano su ogni centimetro quadrato di pelle. Fatti forse altri cinque metri, trova un cespuglio alto e voluminoso e, carponi, ci si ficca in mezzo, bestemmiando se stesso per aver dimenticato la rivoltella in commissariato.

Dopo un po’, l’italiano ricompare. Porta con sé una busta di plastica piena di qualcosa che Benko non può decifrare. Un lampione gli illumina metà corpo compresa l’espressione soddisfatta del volto: «Anche stavolta è andata», dice piano, «per fortuna questo inverno è mite e… non tutti usano quei maledetti tagliaerba: Dio li fulmini insieme ai trapani e alle motociclette smarmittate». E ridacchia, mentre se ne torna dritto a casa con una certa sollecitudine. Benko rientrando nella Zastava osserva l’orologio: si sono fatte le 22 e 40. Ritelefona ad Alina:

«Viene a sostituirmi, capo?»

«Sí, sí. E il soggetto?»

«È appena ritornato a casa».

«Dimmi cos’ha fatto».

«Qualcosa che non ho potuto vedere sotto il palazzo della Einspielerjeva tredici».

«Maledizione! È quello dove, due mesi fa, è stato aggredito Boštjan Križ. Sicuramente Sirmione ha appena conciato per le feste qualche altro inquilino dello stabile».

«Salgo su ad arrestare l’italiano?»

«Prima dobbiamo soccorrere il malcapitato. Va’ alla Einspielerjeva tredici e cerca di capire in quale appartamento è avvenuto il delitto».

«Ma… come faccio? È alto cinque piani… ci saranno almeno dieci appartamenti».

«E tu suona tutti i campanelli, Benko. Un attimo. Prima aspetta che arriviamo io e Tuš: non possiamo lasciare sguarnita la Staničeva. Lo convoco d’urgenza e siamo lí fra massimo un quarto d’ora».

***

Il commissario Miha Maš, alle tredici da poco passate, desidererebbe con tutto il cuore essere altrove. Sta riesaminando con il pensiero la prima impressione che ebbe quattro mesi addietro, quando la Procura della Repubblica gli affidò la direzione del Commissariato di Lubiana. Ebbene, l’impressione di allora si è appena tramutata in ferrea certezza: idioti, è circondato da un bel gruppo di inguaribili, pericolosi mentecatti. Sprofondato sulla poltrona in similpelle blu del suo ufficio, gli occhi bassi sui rapporti riguardanti quanto accaduto fra la notte precedente e poche ore prima, Maš decide di cominciare con la Ptuj, forse la meno intronata dell’ensemble che ora si trova riunita al suo cospetto in totale e mortificato silenzio:

«Riassumendo, signorina ispettrice capo Ptuj: stanotte voi…» e guarda la ragazza, Benko e Tuš, «…eravate tutti e tre insieme sul luogo in cui si stava svolgendo, o si stava per svolgere, un grave reato e non ne avete né identificato né arrestato il responsabile».

«Purtroppo il bilancio dell’operazione…» dice Alina «…si può sintetizzare cosí, ma ciò non significa che la colpa sia nostra».

«Giusto», replica Maš, «la colpa è di chi vi ha affidato l’indagine. Cioè mia. Tutta e solo MIA». Afferra per il manico la grossa pipa in radica di ciliegio presente sulla scrivania e ci si dà una regolare serie di quattro forti colpi in testa, poco sopra la spaziosa e sessantenne fronte.

«No, non faccia cosí, capo», lo scongiura Tuš amaro, «vedrà che raddrizzeremo il rovente caso Bežigrad entro pochi giorni… forse un paio di settimane. Diciamo al massimo un mesetto piccolo piccolo. Su… le porto uno di quei caffettucci ristretti e dolci che tanto le piacciono. Allora: vado?», e fa per alzarsi.

«Muovi un muscolo, Tuš, e ti arresto», sibila Maš, «anzi no: ti sparo». Ed estrae dal cassetto un revolver americano semiautomatico, con una canna grossa quanto un rubinetto da lavandino. Lo posa sul piano in mogano del tavolo, vicino ad una pila di incartamenti con su scritto Pratiche urgenti in corso e inizia a tamburellare sull’impugnatura. Poi alza gli occhi sui colleghi e, notandone l’evidente preoccupazione, lascia che un sorriso folle gli si dipinga teatralmente sul viso liscio e squadrato.

«Come potevamo immaginare…» riprende Alina deglutendo «… che il criminale, una volta andato all’Einspielerjeva tredici e tornato a casa propria dopo mezz’ora, fosse poi ritornato, diverse ore dopo, nel giardino del palazzo accanto a quello di prima, cioè l’Einspielerjeva quindici?»

«Lui, dice? Perché proprio lui dev’essere stato? E che dice IMMAGINARE, lei!» urla Maš, «chi vi chiede di immaginare? Io mi aspetterei che facciate NON SOLO due piú due, ma anche qualche calcoletto un po’ piú complesso, come tre piú nove meno dieci. Mica operazioni d’algebra universitaria!»

«Due. Fa DUE!» interviene Benko.

Maš prende in un microsecondo il cannone e lo punta su Benko: «Era il tuo ultimo desiderio, ex agente investigativo Bogdan Benko, vero!?»

«Come ex…»

«Adesso lo vedrai», ringhia il commissario, «se non metti a freno le corde vocali finché non sarai interrogato». Richiude l’arma nel cassetto e continua con affannata concitazione: «Insomma ecco il riassuntino della vicenda, guardate lo faccio io perché i vostri rapporti sono scritti da far schifo e a me serve una storia completa. Perciò comporrò le vostre commediole individuali in un’unica commedia collettiva. Scena dopo scena, in ordine cronologico. Dunque: l’italiano, uscito di casa, si reca all’Einspielerjeva tredici e ci resta per mezz’ora, dalle ventidue e dieci alle ventidue e quaranta, poi torna a casa sua. La Ptuj, informatane tempestivamente da Benko, giunge insieme a Tuš sulla Staničeva alle ventitré, decide di lasciare Tuš di guardia sotto alla casa dell’italiano e va con Benko al palazzo dell’Einspielerjeva tredici. Lí, si inizia la festa! Vengono buttati giú dal letto gli occupanti di tutti gli appartamenti – fra i quali il sottosegretario al Ministero della Difesa onorevole Šmit Vesson che soffre di insonnia grave. Chiusi balli e fuochi artificiali, la conclusione è che in loco non era successo alcunché d’irregolare: niente delitti, solo famigliole con neonati in lacrime per esser stati svegliati nel pieno del sonno, un ultraottantenne colto da principio d’infarto, due paralitici dei quali uno, terrorizzato, tenta di buttarsi con la sedia a rotelle dalla finestra e un paio di giornalisti del Delo che promettono tempestiva informazione della cittadinanza sulla professionalità delle forze dell’ordine». Il commissario fa una pausa per asciugarsi la fronte imperlata di sudore e prosegue: «Andiamo avanti con la trama del nostro psicodramma. Eravamo rimasti alle ventitré. Verso mezzanotte, sfuggita purtroppo ad un encomiabile tentativo di linciaggio popolare, lei, ispettrice Ptuj, torna sulla Staničeva a far la posta all’italiano con l’agente Tuš, mentre l’altro cervellone di Benko se ne va a letto. Alle quattro, anche il restante servizio di sorveglianza ha termine: dopo quell’ora, certifica il sindacato di polizia, i delinquenti non sono autorizzati a delinquere. E veniamo a stamattina. Senza che nessuno di voi si immagini la lontana ipotesi che fosse obbligatorio informare SUBITO il sottoscritto di quanto accaduto a Bežigrad, entrate in commissariato: cartellino timbrato alle sette, siamo in regola – pensate – e via con il solito caffè al bar qui sotto. Intanto squilla l’apparecchio del centralino e la telefonista, la povera Enkica Pokoren, corre a chiamarvi al bar: guarda guarda! Ma chi sarà ’sto rompiscatole che disturba i solerti Paladini della Legge all’ora di colazione?! Ah! È la signora Špela Bukovec, casalinga residente alla Einspielerjeva quindici, che deve denunciare una cosetta da niente: mentre dormiva tranquilla (cioè, ha dichiarato lei, sicuramente tra la mezzanotte e le sei, ora questa in cui si è affacciata alla finestra della cucina accorgendosi del disastro in pieno corso), il suo tosaerba nuovo fiammante era diventato solo fiammante, in dolce compagnia dell’altrettanto ardente capanno per gli attrezzi condominiale. È un miracolo che il fuoco non si sia esteso agli alberi e alle macchine. Ultimo atto: mezz’ora fa la segretaria del viceministro Šmit Vesson mi chiama promettendomi per conto del capo una sfida a duello all’ultimo sangue, casomai egli fosse stato svegliato un’altra volta dopo le due di stanotte – il vostro allarme generale da bombardamento atomico, con annessa rissa, e il clamore dei pompieri per l’incendio delle sei. Io a mia volta vi anticipo guai serissimi se non vedrò in manette il colpevole di Bežigrad entro quarantotto ore. Adesso ditemi pure: spazio alla fantasia investigativa, signori».

«Può essere» inizia con coraggio Alina «che l’italiano abbia capito d’essere pedinato e, appena constatato che la nostra auto civetta era sparita da sotto casa sua, sia uscito nuovamente di casa verso… poniamo le cinque e mezza: va al capanno, lo cosparge di benzina, un fiammifero e il gioco è fatto. Se lo sottoponiamo a un bell’interrogatorio stile terzo grado sono certa che confesserà. Ho bisogno di un mandato di cattura».

«Non c’è flagranza» constata il commissario «cosa dico al magistrato per ottenerlo? Dove sono le prove?»

«Per quarantotto ore lo possiamo fermare anche noi, appellandoci alle leggi antiterrorismo», suggerisce Tuš.

«Sta a significare che questa procedura, ora, dovrei ordinarvela io in via ufficiale, eh?» precisa Miha Maš pacatamente.

«Be’, sí, ovvio: chi altri?», sillabano in coro Ptuj, Benko e Tuš rivolgendo gli occhi altrove.

«NON SE NE PARLA NEANCHE!» prorompe vulcanico il commissario. «Il delitto è stato commesso attorno alle sei e niente e nessuno (voi inclusi) provano che a quell’ora l’italiano fosse fuori casa: basta che lui ci porti la testimonianza della moglie e della figlia e torna a piede libero. E appena uscito dalla cella d’isolamento, che fa? Si rivolge, felice, alla stampa… ergo: vengo ridicolizzato io personalmente in prima pagina e l’ambasciatore italiano protesta ufficialmente per il trattamento ingiustificato, visto che quell’Aulo Sirmione è incensurato con tanto di alibi. Se volete, agite da soli senza nessuna autorizzazione formale da parte di nessuno. Chiaramente, io, però, non vedo l’ora di togliervi il caso e mandarvi a dirigere il traffico sulla Slovenska cesta. Dunque tanti auguri, signori. Avete quarantotto ore per consegnarmi delle prove blindate, su Sirmione o, meglio ancora, su qualcun altro. Ricordatevelo. Ed ora scusatemi, ma avrei da lavorare», sogghigna compiaciuto il commissario Miha Maš facendo cenno agli agenti di abbandonare l’ufficio.

***

«Non ci restano alternative, ragazzi», enuncia convinta Alina Ptuj nell’affollato locale dello Stari trg, attorno alle ventidue dello stesso giorno. E osserva con decisione Tuš e Benko mentre sorseggiano due enormi Laško bionde alla spina. «Siccome nessuno di noi tre sa per certo chi diavolo sia uscito dal palazzo beige della Staničeva intorno alle sei di stamani, dobbiamo prelevare Sirmione e torchiarlo senza dargli respiro. Concordate?»

«E se non… fosse… lui… il colpevole?», osa Tuš senza energia.

«Chi allora? Attenti:» prosegue Alina «Sirmione abita ad un terzo piano da cui è possibile, con un comune binocolo, spiare sia negli appartamenti della Einspielerjeva che in quelli della Staničeva ove sono avvenuti i delitti. Insomma la palazzina dell’italiano è posizionata al centro preciso fra le quattro scene del crimine! Non facciamoci prendere per i fondelli, su… l’ho anche visto personalmente nella sua sala, il binocolo, poggiato sul davanzale della finestra che dà sulla villa del vecchio Šnajder. E dalla cucina si domina l’abitazione degli altri tre tizi che son stati a fare la scultura di Giò Pomodoro in versione nudista. Poi c’è il comportamento da gaglioffo, che Sirmione non riesce neanche facendo sforzi mostruosi a dissimulare fingendosi intellettuale… inoltre il tipo è allegro. Troppo allegro: come mai, se non compiacendosi delle adolescenziali marachelle che sparge per il quartiere (che lui in realtà odia)… certamente supportato dalla moglie. La complice e moglie anzi».

«Già…» spunta Benko «…i suoi familiari che parte avranno avuto nella vicenda…?»

«Mi sono informata» dice Alina a bocca storta: «sono ben due. La coniuge Amelia Satta, sardo-capodistriana, pare scrittrice di lingua slovena, e la figlia Lorenza, undicenne e già responsabile di scherzi tremendi a scuola (per esempio un mese fa ha messo un etto di peperoncino ultrapiccante calabrese nella pastasciutta dei compagni). Insomma due mezze malviventi che convivono con un malvivente intero. Secondo me a Bežigrad hanno fatto un lavoro di gruppo, per vendicarsi sui vicini di qualcosa (che spero ci sarà presto rivelata) e mandarci fuori rotta con i tosaerba… i quali secondo me in realtà non c’entrano niente con il vero movente. Un capolavoro di depistaggio, ’sti tosaerba».

«Va bene», s’intromette Tuš. «Adesso signorina ispettrice, ci può finalmente spiegare perché stasera ci ha voluto trascin… ehm invitare a tutti i costi in questa birreria?»

«Lavoro, ragazzi, lavoro. Per incontrare insieme a voi un nuovo informatore che si preannuncia in gambissima». Sbircia l’orologio da polso. «Lo attendo a minuti».

«Ma non avrà paura di esser riconosciuto, a mostrarsi in pubblico con noi?» tituba Benko.

«Ovviamente» precisa l’ispettrice «apparirà truccato in modo da essere inidentificabile anche per la mamma. Indovinate come siamo entrati in contatto: lui ha letto il giornale di oggi, dove si diceva che la polizia, pur sospettando un misterioso straniero, con il caso Bežigrad brancola nel buio e lui – nome in codice Rufus – mi ha spedito una email in ufficio offrendomi collaborazione».

«Gratuita?»

«Che c’entra… un po’ di olio per mettere in moto gli ingranaggi dovremo darglielo».

«Di tasca nostra?», chiede timoroso Benko ad Alina.

«Per il momento sí, ma tranquilli: recupereremo tutto attingendo al fondo ministeriale per le spese straordinarie. Rufus abita sulla Staničeva (non ha specificato a che numero, ma dev’essere nei dintorni della zona che ci interessa) e non dobbiamo lasciarcelo sfuggire. Garantisco per la sua affidabilità. Quindi mi aspetto che ci fornisca il movente degli italiani e, soprattutto, ci indichi il modo per reperire delle prove sostanziali contro Sirmione. Cosí domattina quello lo andiamo a prelevare in casa, lo trasciniamo con le belle o con le brutte al commissariato e videoregistriamo un interrogatorio da manuale!»

I tre poliziotti stanno visibilmente pregustando il successo del loro nuovo modus operandi quando un capellone castano chiaro, giovanile, magrolino e barbuto dalla pelle giallognola e malaticcia, sbucato non si sa da dove fra i chiassosi gruppi di giovani, si accosta al tavolino e accenna significativamente con gli occhi all’ispettrice.

«Ah è lei, signor Rufus. Si accomodi, prego», dice Alina controllata.

Lo sconosciuto resta in piedi e si curva: ha in mano un foglio piegato in quattro che fa scivolare nella tasca della giacchetta della poliziotta, la quale estrae dal proprio portafogli due banconote da diecimila talleri che finiscono in un attimo nelle tasche dell’uomo. Alina legge il messaggio sotto il tavolo, poi:

«Cosí, eh? Mh. Non è l’individuo che sospettavamo. Siamo certi che a questo indirizzo, fra venti minuti, troveremo le prove per confermare tali accuse?»

Rufus annuisce e scompare.

«Vado io, naturalmente», ordina l’ispettrice. «Voi sparatevi… qualche altra birra qui. Se è come penso, tornerò presto».

«Un momento. Ha con sé la rivoltella, capo? Potrebbe essere pericoloso», dice agitato Benko.

«Armi? Io sono un’arma. Impropria. Registrata al Ministero della Difesa». Sorride e si defila, mentre i colleghi la rivedono sul ring del Campionato di Pugilato Femminile Interforze, vinto della Ptuj un anno prima a pieni voti, ovvero tre cappaò in fila.

 

Quinto capitolo

Un paio di ore piú tardi, Alina Benko e Tuš sono riuniti in sacra contemplazione di un obsoleto registratorino portatile, posto sulla scrivania dell’ufficio dell’ispettrice.

«L’audiocassetta come vedete è stravecchia e malridotta – stava legata con uno spago sul ramo di una betulla – ma spero funzioni quanto basta da meritarsi i ventimila talleri che ho sborsato per portarla qui». Preme il tasto play. «Niente interruzioni, eh, dopo commenteremo», intima Alina. Il nastro prende a scorrere:

Maledetti lubianesi – dice una voce monologante – io li odio, li detesto! Che un terremoto come quello del 1895 distrugga le loro catapecchie e quei chiacchieroni tornino a brucare l’erba come i loro progenitori… in silenzio! Perché silenzio, razionalità ingegneristica ed ordine botanico sono ciò che serve ad un popolo per ritrovare se stesso, non chiacchiere, chiacchiere e ancora chiacchiere. Lo so che mi hanno isolato: la verità è scomoda, brucia sulla pelle. Codardi! Rumorosi disturbatori: chi canta, chi fischia, chi suona! Pensate piuttosto a risolvere i problemi tecnici del quartiere: case vetuste, rami sporgenti, erba anarchicamente dappertutto, rumore di passi in strada. Tremendo medioevo. Invece no, gli stupidi romanticoni della domenica comunicano, bla bla bla! E intanto buttano i quattrini (ne avete troppi eh!) sui tosaerba ultima generazione: i Grasskiller 457 FD – dei gioiellini americani da esposizione, da museo! – e gli italiani Gramignovora 246 SG, ad alimentazione solare, che sbranano un quintale di erba in tre minuti esatti! Aaaaah! Perché! Perché nelle vostre inadatte e artritiche mani tali capolavori tecnologici! Non è giusto che io compri un modello nuovo ogni tre mesi e debba vedere, alla prima rasatura che ci faccio, che voi ve la spassate sul prato con un modello migliore e piú recente. No! Voi l’erba dovreste brucarla con la bocca, non ricorrere a simili mezzucci per umiliarmi. Ah, volete la guerra? E che guerra sia. Vi riporterò presto alle condizioni che piú vi si confanno… alla… ah ah ah… alla natura!

«Ma questa…!» non può far a meno di esclamare Benko conclusasi la registrazione «…questa è una voce di…»

«Già. Incredibile vero? Be’, domattina preparo il materiale per il confronto vocale, sbrigo le pratiche burocratiche e con un giro di telefonate raccolgo le conferme che ci servono dai diversi uffici. Se il mandato firmato dal giudice sarà pronto già alle quattordici, alle diciassette potremo essere alla Staniceva 12 (puntuali eh!) per marchiare con la parola fine questo caso. Me ne ero proprio stufata, sapete?».

***

«Polizia investigativa, agenti Ptuj Tuš e Benko. Ci fa entrare per favore?»

Dall’altoparlantino del citofono in risposta non giunge verbo, soltanto il bzzzz dell’apriporta. Saliti al pianerottolo in questione, i tre trovano l’uscio sfessurato ed entrano. L’appartamento, intriso di uno strano e sgradevole odore, è pressoché privo di mobili ma occupato all’inverosimile da vasi di piante, tutte e solo carnivore equatoriali – nota Benko che occasionalmente esercita un po’ di floricoltura. La persona che cercano li sta attendendo in sala, seduta compuntamente su un divano verde pisello: lo sguardo rasente il pavimento, sembra non essersi accorta delle nuove presenze umane.

Facendosi forza per superare l’imbarazzo, è l’ispettrice a rompere il ghiaccio:

«La signora Tinkara Ils?»

Mentre i poliziotti mostrano i distintivi, l’interessata annuisce senza muovere sopracciglio, statuaria.

«Guardi», prosegue Alina estraendo dall’impermeabile amaranto il walkman, «lei, ora, dovrebbe leggere a voce normale questo testo», porge alla donna un foglio stampato. «Noi la registreremo. Ovviamente abbiamo un regolare mandato che ci autorizza a…»

«Non ce n’è bisogno: la voce su quel nastro è la mia. Ve l’ho consegnato io, ieri sera, appeso alla betulla», dice meccanicamente la Ils.

«Ehi!», interloquisce d’un tratto Benko: «guardatela bene: aggiungendo barba e baffi…»

«Lasciala parlare», lo blocca Alina con un gesto risoluto.

Tinkara Ils punta l’indice su un tavolino poco distante, sul quale sono posate due banconote da diecimila talleri e «Quelli riprendeteveli pure», sillaba.

«Scusi ma qui mi sta sfuggendo qualcosa», commenta Alina rivolta a lei: «perché fingersi un informatore? Non poteva consegnarsi alle autorità e confessare direttamente i suoi delitti? Facile, no».

«Avevate puntato quell’italiano e non mi avreste creduto, prendendomi per una mitomane».

«Già…» conferma Tuš «…se non ci avesse messo sulla strada giusta lei stessa, credo proprio che avremmo fatto passare qualche cinque minuti di allegria a Sirmione».

«Tutto il merito a LUI!», scatta come una molla Tinkara Ils. «Il simulatore si sarebbe appropriato dei MIEI meriti! Eh no! Non lo avrei mai permesso, questo furto!»

«Meriti? Alla gente questi sembrano crimini», sussurra Benko trascurando Alina che cercava di tacitarlo facendo smorfie.

«Sí, perché la gente è STUPIDA!» esclama Ils. «E crede soltanto alle apparenze».

«Noi le crediamo», dice Alina rassicurante, «ma se vuole convincerci a pieno, perché adesso non ci narra nei particolari come si sono svolti i suoi delit… ehm le sue coraggiose azioni… anticonformiste? Insomma i suoi meriti. Per esempio ci sveli come ha fatto ad entrare in casa di quelle persone senza lasciar traccia né scassinare porte o finestre».

«Mi hanno aperto loro stessi la porta».

«Come? Questo non ci risulta, dalle testimonianze rilasciate dalle vitt… ehm da quei mediocri cittadini comuni», risponde Tuš.

«Ovvio: prima avevano bevuto la tisana», precisa eccitata Tinkara Ils.

«Insomma, per favore ci racconti lei tutto sin dal principio. Noi staremo zitti registrandola. Si potrebbe cominciare dal primo episodio, quello di novembre. D’accordo?» propone l’ispettrice non senza una certa curiosità.

«Allora. Siccome io sono una persona metodica ed ordinata», si lascia andare senza freni Ils, «ho posto le basi del mio progetto la primavera scorsa. Per la precisione il ventinove aprile quando, durante un viaggio di piacere in Brasile, mi sono trovata vicino a San Paolo in una grandissima serra, dove era esposta al pubblico una varietà sterminata di piante autoctone. In particolare mi colpí il fiore giallo e blu della Luridella Malodorans. Richiesta, la guida mi spiegò che quella era sí una pianta carnivora, ma anche diciamo parlante… e per questo la piú amata, secoli fa, dalle tribú indigene, che ne usavano i petali, una volta essiccati, per entrare in contatto oracolare con i loro dèi, nel corso di riti nei quali gli stregoni, dopo aver sorbito una tisana di Luridella, cadevano in una sorta di trance ipnotica ed emettevano sentenze sibilline, obbedendo per di piú a tutto quanto gli ordinassero i fedeli lí riuniti. Ebbene: se l’invasamento mistico dopo qualche ora finiva, l’effetto obbedienza perdurava almeno altri quattro mesi, durante i quali se uno degli adepti presenti al rito avesse chiesto allo stregone, mettiamo, di cantare una ben precisa canzone, lui l’avrebbe cantata senza averne coscienza e, poi, senza ricordarsi assolutamente di averla cantata. Nascostamente dalla guida, carpii un ramoscello della pianta e, rientrata a Lubiana, lo trapiantai… ottenendo degli ottimi risultati, come potete vedere in questa casa. Ad ottobre, possedevo già ben sette grandi e floride Luridelle: era il momento di avviare la seconda fase del piano. Andai, uno ogni venerdí, a trovare certi conoscenti del quartiere che sapevo amanti di intrugli tipo tisane e decotti esotici e ne regalai una bella quantità a ciascuno, in sua compagnia fingendo di berne una tazza. Questa erba puzza sí, mi dicevano, ma l’infuso ha un gusto sopraffino. Cosí a partire da novembre, telefonicamente, ho iniziato a impartire ordini a quei fessacchiotti: esci subito e lascia aperta la porta di casa! Sapeste, poi, che divertimento era vederli spogliarsi da soli e riaddormentarsi nudi nei garage, sui terrazzi, negli scantinati… intanto, perché una volta svegli pagassero il fio delle loro colpe, distruggevo i loro tosaerba. Inoltre, sapendo l’ostilità dell’italiano per quelle macchine automatiche, ero certa che la polizia avrebbe messo gli occhi addosso a lui. Il gioco è proseguito perfettamente fino a… l’altroieri sera. Desideravo da anni punire la signora Bukovec, ma non mi era riuscito di ammannirle la tisana perché quella scema beve solo caffè. Ho dovuto pertanto rischiare, bruciandole il capanno per gli attrezzi. Tuttavia, la fortuita coincidenza con l’uscita dell’italiano da casa – va in giro spesso anche di notte a cercare erba per i suoi porcellini d’India – è stata preziosa per confermare i sospetti degli inquirenti… cioè voi, ah ah ah. Adesso andiamo pure… ma mi raccomando: dite alla stampa e alla televisione che il pazzo di Bežigrad sono io, IO, TINKARA ILS!! Slovena purosangue, patriota e amante della pulizia e del tecnogiardinaggio… non quell’idiota di Aulo Sirmione. Quello è solo capace di nutrire le cavie».

Sergio Sozi 

6 thoughts on “Sergio Sozi: Il rovente caso Bežigrad

  1. Aggiungerei soltanto una cosetta: questo raccontino rappresenta il mio primo tentativo di ambientare una narrazione breve in Slovenia… e addirittura non in un ”luogo qualsiasi” della Slovenia, ma…
    be’, immaginatevi voi cosa puo’ avere a che fare con Sergio Sozi quanto presente in questa ”rovente” storia giallo-umoristica…

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