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Recensione del romanzo di Marco Griffi / Recenzija romana Ferrovie del Messico Giana Marca Griffija


Esercizi di stile tra una stazione e l’altra – ovvero recensione di Ferrovie del Messico, di Gian Marco Griffi (Laurana Editore, Milano 2022)

Ai primi anacronismi di questo romanzo, presenti già alle pagine 24 e 25, ho storto il naso – forse per l’abitudine a vederli piazzati in modo insano, ossia del tutto involontario, nei romanzi prodotti in questi tempi, funestati da disattenzione e trascuratezza riguardo i dettagli storici inseriti nella narrativa. Procedendo, ho capito che era tutto voluto dall’autore, che considero ora persona meticolosa e pignola anche nell’imbastire gli assurdi temporali e le altre oculate pazzie di cui sono costellate le 802 pagine che contano (un’altra pagina, posizionata a seguire la prima parte, costituisce la mera anticipazione di una futura narrazione, in altro luogo, di ulteriori eventi relativi ai protagonisti, insomma l’avviso di un seguito della storia).

Dunque, i per nulla credibili “ordinatori” ed “elaboratori” (cioè computer), le “fotocamere”, una “bolla del tempo”, una macchinetta automatica del caffè, un’altra che addirittura legge e trascrive i pensieri degli uomini (ecc.), vengono sistemati nell’Italia della Repubblica di Salò, ossia tra il 1943 e la fine della guerra (ed anche in alcune anteriori analessi), che è l’epoca in cui si svolge principalmente, senza seguire un ordine cronologico, la trama delle Ferrovie del Messico. Un intreccio questo che tuttavia resta perfettamente comprensibile anche al lettore più sprovveduto (ogni capitolo ha una datazione quasi mai in linea con quella del capitolo precedente, ma le vicende sono chiarissime, così questi sfalsamenti e spezzettamenti della linea del tempo non cagionano alcun disturbo ad un’ordinata sistematizzazione della lettura: ogni frammento è una tessera coerente all’affresco realizzato a mo’ di mosaico).

Quindi, per il mio (abituale) desiderio di rifiutare di accogliere, prima della lettura, altre opinioni critiche e definizioni del libro, avevo mancato di capire di avere di fronte (e non difronte tutto attaccato che è brutto vezzo) un romanzo d’avventura fantastico, enciclopedico, postmoderno, a forte valenza poetica, parzialmente fantascientifico e quasi ucronico. Il che ci rimanda ovviamente, almeno tecnicamente parlando, alle monumentali narrazioni di Umberto Eco, Thomas Pynchon, Carlo Emilio Gadda e Jorge Luis Borges (ma non senza passare, crediamo noi, attraverso il Raymond Queneau dei Fiori blu, il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore e magari pure la Storia vera di Luciano di Samosata).

Esemplare summa di influenze letterarie è la disquisizione sul nulla che inizia a p. 577 delle Ferrovie del Messico per poi estendersi e ramificarsi, trasformandosi mirabilmente in altre argomentazioni, svolte su parecchie pagine e tanto originali e nuove quanto debitrici di ispirazioni ed aure assorbite da Gadda, Calvino e Queneau, uniti, pensiamo, consciamente dall’Autore in un sincretismo assai elegante, raro e coinvolgente, perché fuor da ogni tentazione di mimesi o adesione a scuola o atteggiamento cenacolare. Certi rimandi, qui, sono semplicemente apodittici, intendendo il termine secondo l’accezione strettamente filosofica.

Anche la spinta lirica colora, ma spesso di tinte scure alternate a rari sprazzi fotonici, più luoghi dedicati a osservazioni in prima persona dell’Autore, talvolta attribuite a qualche personaggio. Queste sono veramente dei parti di prima mano di Griffi e concedono all’opera tutta l’autonomia che un romanzo di queste dimensioni non potrebbe non avere senza fare la fine, assai meschina, dell’opera di un neofita, pretenziosa, sproporzionata, in fin dei conti tentacolare e logorroica. Rischio fortunatamente del tutto evitato. Questa, invece, potrebbe essere la credibile ed originale via italiana futura all’enciclopedismo lirico-letterario: una narrazione lunga, apparentemente disarticolata e dai tempi dilatati a piacimento di ogni singola fase, nonché amante della digressione ma controllata e attenta a non massacrare la legittima esigenza di un naturale svolgimento della consecutio temporum da parte del lettore di ogni dove.

Foto: Facebook

Contenuti inerenti il pensiero, la riflessione e i significati, sempre all’altezza del tenore alto dell’opera, nonostante le ripetute e sparse dosi di nichilismo e materialismo.

Un episodio – diremmo unito appena per uno stretto lembo alla vicenda della mappa ferroviaria – merita poi particolare segnalazione, poiché a nostro avviso eleva il livello generale già di per sé notevolissimo: la storia riferita dal conte Cesare Cocchi Renani a partire da p. 512 ss.; un gioiellino stilistico che spicca (anche per aderenza alla prosa della tradizione ottocentesca) fra le tante testimonianze del coro di personaggi – tutti, va detto, non coprotagonisti ma deuteragonisti dei centrali Cesco Magetti e Tilde Giordano. Le vicende della fabbrica di colori tedesca, la farberfabrik, invece, ci sembrano forzate, troppo decontestualizzate nel loro compito di esprimere e rappresentare un eccesso filmico-teatrale-psichedelico di fantascienza negativa legata al cinismo del potere politico-economico esercitato sulla società di massa.

E ci sarebbe da approfon-dire molto altro, ma per il momento, devoti al supporto telematico in cui siamo, concludiamo qui la nostra breve recensione.

Sergio Sozi, in Lubiana, li 29 dicembre 2023

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