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Le parole mancanti – colloquio con Laura Pariani

Di Sergio Sozi

Di Laura Pariani, autrice di molte opere di ogni genere, fumetto incluso, sin dal 1975, è uscito nel 2017 il romanzo «Domani è un altro giorno» disse Rossella O’Hara, pubblicato da Einaudi.


Cosa comporta per lei il varo di un libro?

L’uscita di un nuovo libro – qualunque sia l’editore – è un evento faticoso. Ogni libro, come un figlio piccolino, deve essere accompagnato per un po’ di tempo, prima di essere “lasciato andare sulle sue gambe”. C’è soprattutto la fatica di rispondere a interviste, di spiegare la rava e la fava.

Ah, da scrittore capisco; come critico invece dopo aver letto l’incipit mi domando: perché la sua Bambina esordisce nel romanzo cavalcando?

La protagonista in effetti usa una bicicletta, segno di emancipazione rispetto al fratello minore. Ma con la fantasia, amando immedesimarsi con gli eroi del cinema e dei fumetti, si immagina amazzone: non sulla prosaica bicicletta ma a cavallo si spostano i personaggi delle fiabe, vanno all’assalto i pellerossa, sfugge agli agguati Zorro…

Quanto di autobiografico c’è in questo ultimo romanzo? È previsto un seguito?

Alla protagonista di questo romanzo ho dato alcune delle mie caratteristiche infantili: l’amore per le storie raccontate da romanzi, fumetti, film; la passione di inventare storie, che gli adulti bollavano come “inclinazione alla bugia”; la ribellione ai modelli imposti come, per esempio, quello che per una donna conti principalmente il fatto di essere bella. Dei “miei” anni Cinquanta ho messo nel romanzo un certo tipo di cattolicesimo esibito alla messa cantata e atteggiato a demonizzare certi comportamenti devianti, soprattutto femminili… Quanto al seguito, non so: ho nel mio archivio la storia di una adolescente degli anni Sessanta. Ma è presto per decidere.

La sua prosa è vivace e fantasiosa, con uso garbato e ironico di metafore, idiotismi e dialettismi. Natalia Ginzburg e Carlo Emilio Gadda dovrebbero dunque essere nel suo bagaglio di amori intimi e perenni…

Esatto. Senza contare Carlo Porta, la Scapigliatura, Tessa, Testori, Dario Fo, insomma tutta la linea della letteratura milanese.

Quanto contano per Lei le sfumature di senso, la ricerca e il calcolo dell’effetto estetico ed artistico delle parole? E qual è il Suo metodo di lavoro abituale, se ce n’è uno?

Scrivo accompagnata dalla costante sensazione dell’urgenza di mutare quello che ho scritto, di intervenire di nuovo, perché quello che ho in mente risulti più nitido, in frasi meglio concepite, in parole maggiormente appropriate, nell’intonazione giusta. Come si trapianta un germoglio in un vaso più largo, col terriccio più concimato.

Rigiro le parole, le soppeso, quest’espressione cosa ci fa qui? Proviamo a mutarla di posto, senza fretta neh, soltanto per vedere l’effetto; ci vogliono mille precauzioni, altrimenti tutta la costruzione della pagina traballa, rischia di disfarsi. Le frasi ondeggiano davanti agli occhi, questo cambiamento non si può fare, le parole sono cose così vive, tremanti…

E, alla fine di tutto, la lettura a alta voce: perché le parole non sono soltanto segni di inchiostro sulla pagina, ma sono voce, respiro.

Perché questa professione?

E chi lo sa? Chi scrive affonda in parole che mancano, per ritrovare qualcosa che ignora, che non è né bello né brutto, ma che lo attira o spaventa. Che rompe con l’ordine consueto delle cose. Perché il cervello di uno scrittore lavora in uno strano modo; capace di consacrarsi appassionatamente a ciò che tutti gli altri trascurano. Sono fatta così.

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Foto in copertina: Wikipedia

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