“La mia stagione è il buio”, romanzo di Cristina Caloni (Golem Edizioni, Torino 2021). Recensione di Sergio Sozi / Recenzija romana Cristine Caloni La mia stagione è il buio
Quest’opera è molte cose, accavallate, alternate, abbracciate, o a far coro.
È narrazione in stile (neo-) gotico, dagli accenti visibilmente teatrali con illuminazioni (sempre neo-) baroccheggianti, ed è storia permeata (e in ossequio) della psicosi e delle ripetute e disorientanti finzioni del giovane protagonista Giuliano/Julian; ma è anche flusso continuo, racconto tradizionale che a un certo punto del proprio cammino sceglie di sfilacciare la propria corrente vocale in una pluralità di ugole e punti di vista personali, pertanto dandosi alle assi del palcoscenico in modo che i (molti) coprotagonisti possano guardare in faccia ogni lettore, oramai immobilizzato sulla propria poltroncina (il viso cadaverico attraversato da fulminee, precoci rughe di coinvolgimento) e pur rimanendo, dopotutto, tutti gli attori i membri di una storia confinata nell’antro di un sontuoso olio su tela (alla Bacon?): quadro parlante e ritraente nature morte, o meglio consunte vite giovanili inquadrate – e penetrate a fondo da un’Autrice assai coinvolta nelle vicende – in un lasso temporale che si estende fra Italia e Gran Bretagna e fra gli anni Ottanta e i primi Duemila.
Vita, vite allo sbando nei venti pluridirezionali di una contemporaneità contraddittoria e disunente.
Vita di una famiglia orrendamente moderna, ossia priva di spina dorsale, affiancata dalla vita di un celebre locale milanese la cui esistenza e missione fu quella di esprimere l’eccesso racchiuso nella giovinezza che si disperde col divenire spettacolo, nel coniugare musica, arte, verità sempre fittizie e inutili libertà.
Vite di ragazzi fra letti, droghe, superalcolici, nottate, ostentazioni, fuochi fatui e amicizie spesso estreme e ancor più spesso vite episodiche, superficiali, inespresse, addirittura timide (e introverse) a far scorribande fra locali radicali alla moda e belle case, a cercare baricentri e novità, ma pur sempre vite costantemente solitarie e insensate, tormentate, squilibranti e ossessive, incorniciate da accenti sepolcrali ed inanellate, argentee e lubriche esasperazioni, in certi punti, ai miei occhi, stratificate ed insistite fino a rasentare l’intollerabilità per sopradosaggio di stranezze e malattie mentali.
Il mito nero e polifonico di questa intensa e anche fin troppo verace biografia immaginaria di artista italiano è un’opera che, nonostante in certi tratti esageri davvero con la reiterata presenza di anglicismi gergali e generazionali e renda quasi stucchevole, o quanto meno maniacale, l’insistenza sul soggetto, ha il merito di restituire i nervi scoperti di una gioventù italiana tribale e intrisa di continua dispersione ed endemica insensatezza, esposte ben oltre i limiti: quelli del buon gusto, della decenza morale, della stabilità identitaria minima, oltre i quali inizia solamente il deserto metropolitano, la nullità della società polverizzata perciò inesistente, al cui centro è posizionata l’antropologia giovanile e giovanilistica italiana di oggi, apparente come vuoto cenotafio costituito di celebrazioni di divertimento collettivo che tutto sono meno che normali espressioni di comunicazione spirituale, amicizia e incontro fra genti moderne con “tutto il futuro davanti”.
Uno spaccato sociale in onore di una persona e di una generazione perdute, con varie intensità cromatico-esperenziali, causa eccesso di attività psichica e fuga dalla massificazione. Fuga che inevitabilmente, sappiamo bene, storicamente ha infine portato tutti ad immergersi in nient’altro che una diversa, sempre alienante massificazione: quella che abita nel vuoto divertimentificio edificato per fungere da palliativo, da mero placebo, essenzialmente, o meglio da reazione condizionata, pavloviana, causata da un dramma inenarrabile e inaccettabile: la distruzione, coniugata all’implosione, della famiglia italiana.
La famiglia classica: unica sponda possibile alla corrosiva e decadente atmosfera del capitalismo consumistico, nichilistico, relativistico e materialistico postindustriale, la cui perversa e perniciosa tirannia dovrebbe essere ben chiara a tutti noi. Noi intendo dire, che crediamo nella natura buona dell’uomo. Anche quello italiano. Benché forgiato e alterato, incattivito e reso egoista da un’epoca storica, la cui ossessione per la vacuità del tempo vitale, la cui cupio dissolvi espressa nell’eterno sentirsi “post-qualcosa” rischia di divenire malefico mantra e straziante salmodia autodissolutoria dell’Io. E del Noi.
(Sergio Sozi, Lubiana, li 4 maggio 2022)
Foto in copertina: Facebook