Come tradurre il romanzo di Goran Vojnović, nel quale la lingua è protagonista primaria? In esclusiva per il nostro blog, Patrizia Raveggi. / Kako prevajati Vojnovićev roman, v katerem je jezik najpomembnješa oseba? Ekskluzivno za naš blog Patrizia Raveggi.
Goran Vojnović (1980) è uno scrittore sloveno di origini bosniache. Il suo romanzo d’esordio Čefurji raus! ha vinto, nel 2009, due prestigiosi premi letterari sloveni: quello della Fondazione Prešeren e il riconoscimento per il miglior romanzo sloveno di quell’anno, il Premio Kresnik. Il romanzo, che ha visto anche un’omonima versione cinematografica (l’autore stesso ne è stato il regista) e una trasposizione teatrale, narra le avventure di quattro amici di Fužine, un quartiere periferico di Lubiana, dove i ragazzi che appartengono alla seconda generazione di immigrati soprattutto bosniaci, ancora oggi si sentono emarginati; la loro difficile integrazione si manifesta nella loro parlata e nella loro formazione culturale.

Goran Vojnović (foto Wikipedia)
Il romanzo è stato tradotto, finora, in ben otto lingue, tra le quali anche in quelle dell’ex Iugoslavia, compito particolarmente complesso visto che il romanzo è scritto – soprattutto nelle sue tante parti dialogate – in un linguaggio misto di slang dei giovani sloveni e della parlata «fužinese», un amalgama che apporta strutture sintattiche nuove, lessico variegato, neologismi e modi di dire spesso molto spiritosi alla parlata dei discendenti degli immigrati bosniaci del dopoguerra. Quanto appena detto basta per immaginare il compito difficilissimo dei traduttori di quest’opera. In quali altre realtà linguistiche si può trovare uno scenario di un Nord sviluppato che a partire dagli anni ‘50 accoglie gli immigrati sí dello stesso Paese, ma di una lingua diversa e, nello stesso tempo, comunque sempre molto vicina perché slava (ancora piú precisamente: sempre del gruppo delle lingue slave del sud)?
Alla fine del 2015, con la sovvenzione dell’Agenzia slovena del Libro (JAK), è uscita anche la traduzione italiana. A pubblicarla è stata Forum Editrice di Udine, che di recente ha provveduto anche alla traduzione del romanzo Stanotte l’ho vista di Drago Jančar (ne abbiamo scritto qui). Il romanzo di Vojnović in italiano è stato presentato anche alla Fiera Nazionale della Piccola e Media editoria di Roma, nello scorso mese di dicembre.
A Patrizia Raveggi, che nel passato per alcuni anni ha ricoperto il ruolo di Lettore di Lingua Italiana su incarico del Ministero degli Affari Esteri italiano presso il Dipartimento di Lingue Romanze della Facoltà di Lettere e Filosofia di Lubiana, e cui si deve oggi la traduzione e cura del romanzo in parola, abbiamo rivolto alcune domande in proposito.
Casa / Hiša: Prof.ssa Raveggi, quali sono stati i motivi, per i quali ha deciso di tradurre questo romanzo, che cosa L’ha particolarmente attratta? La sfida linguistica, il racconto, il tema degli immigrati…?
Raveggi: Gentile Veronika, la domanda è ben posta, infatti intraprendere la traduzione di un’opera di letteratura soprattutto in assenza di un incarico cogente da parte di qualche casa editrice, presuppone che quell’opera ci incuriosisca o ci attragga o comunque non ci lasci tranquilli.
Per un periodo molto molto lungo, per decenni, non mi era stato possibile seguire le vicende della letteratura slovena; men che meno, nel 2013, quando ho preso in mano Čefurji raus! avevo idea che fosse stato premiato, che avesse suscitato polemiche etc.
Letto casualmente dunque e senza preparazione, Čefurji raus! mi è piaciuto subito. In primo luogo la vicenda di cui si narra, il disagio esistenziale, la tragedia umana di persone straniere in patria, estranee, spostate, che si sentono a casa soltanto nella loro memoria; fenomeno purtroppo non limitato alla borgata di Fužine: lo sradicamento, lo stato di profugo è il fenomeno centrale del nostro tempo e di recente ha assunto proporzioni non conosciute in precedenza, cui non si è stati capaci di trovare una risposta adeguata. Uno dei molti meriti di Cefuri è aver reso palpabili queste situazioni disperate, localizzandole e mettendo in evidenza le contraddizioni del sistema. Tuttavia l’elemento di maggior attrazione alla prima lettura è stato l’universo linguistico-letterario che del libro costituisce il background sonoro, la musica verbale.
Un caso di amore a prima vista, forse il «caso non a caso» di Wislawa Szymborska in Miłość od pierwszego wejrzenia.
In corso d’opera, e fino alla fine della traduzione e ancora per molto tempo dopo, nutrivo seri dubbi sull’eventualità che un giorno si sarebbe materializzata una casa editrice italiana tanto lungimirante da rendersi conto delle potenzialità di un testo del genere, dotato di una tale innovativa forza d’urto. L’ingresso di Forum Editrice nella vicenda è stata una sorpresa, e ancora mi stupisce e rallegra che esistano case editrici così intrepide e intelligenti. E professionalmente ferrate e con personale dotato di tanta certosina acribia testuale ma al tempo stesso non chiuso alla creatività e all’invenzione. Sia detto per inciso, alla Forum, le persone con cui ho collaborato sono tutte donne. Un team straordinario.
Casa / Hiša: Ha quasi riprodotto il titolo originale Čefurji raus! – sulla copertina italiana leggiamo: Cefuri raus! con un sottotitolo che aiuta il lettore italiano a capire quelle due parole: Feccia del Sud via da qui. Čefurji, infatti, è l’appellativo con cui gli sloveni chiamano spregiativamente gli immigrati dalle Repubbliche meridionali dell’ex Jugoslavia. Il titolo in originale è allora composto da una parola stilisticamente già ben «colorata», entrata nello sloveno negli anni Ottanta, e un raus tedesco che ci ricorda le grida naziste rivolte agli ebrei. Quali sono state le Sue ragioni per mantenere il titolo quasi originale, solo leggermente adattato per facilitare la pronuncia italiana (senza il «cuneo» sopra la c che si pronuncia come la c italiana davanti alla e, e senza la lettera j)?
Raveggi: Si sa, un romanzo deve avere un titolo, dice Umberto Eco, e un titolo è già una chiave interpretativa… «forse bisognerebbe essere onestamente disonesti come Dumas, poiché è chiaro che I tre moschettieri è in verità la storia del quarto» (e infatti, chiosa Enrico Arcaini, il titolo «è un atto di promessa non sempre mantenuta») e comunque… riprende Eco, «un titolo deve confondere le idee, non irreggimentarle». Dal punto di vista dell’editore, infine, il titolo dell’opera ha un ruolo cruciale nel destino commerciale dell’opera stessa, trattandosi del biglietto da visita con cui questa si presenta al pubblico, e vale come chiave di lettura e come sintesi.
In questo caso, la decisione di casa editrice e traduttore sul titolo è stata immediata e unanime: lasciare lo stesso titolo, minimamente addomesticato ad uso dei lettori italiani; respinta unanimemente la tentazione che si presentava come ovvia, spontanea, di qualcosa del tipo: Terroni a casa! oppure Terroni via di qui!. O anche Terroni go home! O infine Terroni raus!.
Sappiamo tutti infatti che in ambito traduttivo la soluzione che per prima viene in mente è molto spesso da non prendere in considerazione in quanto generata da un meccanismo di associazioni o ricordi linguistici che seguono percorsi dettati da apparenti analogie di ambito, ma che si rivelano sovente anacronistici o del tutto fuori contesto; la scelta Terroni – giustificabile in parte per la comune matrice di ostilità/paura verso il diverso che è all’origine di entrambi gli epiteti, terroni e cefuri- avrebbe potuto creare malintesi storici e culturali incompatibili con il senso del libro, inducendo il lettore a un’ interpretazione fuorviante. Se il termine terroni esprime il modo ostile di designare italiani del meridione da parte di italiani del settentrione, il segmento čefurji raus! (come giustamente Lei ha anticipato nel Suo commento) è calco dell’espressione juden raus!, un tragico grido che echeggia nei secoli fino a farsi fanfara del genocidio che decimò gli ebrei d’Europa meno di ottant’anni fa.
Terroni come titolo con tutte le relative varianti fu scartato fin dall’inizio, si optò per mantenere l’originale (addomesticato), con la supina assunzione razzista e antisemita di cui si diceva, esplicitandone il carattere ingiurioso in un sottotitolo. Sul quale sottotitolo, invece, la decisione è stata molto sofferta; per tagliare la testa al toro, alla fine la casa editrice, con il suo comitato di esperti, e il traduttore si sono rivolti all’Autore che- tra le proposte di sottotitolo – ne ha indicata una (vedi qui sotto, 8).
Titolo (approvato all’unanimità): Cefuri Raus!
Proposte di sottotitolo:
- Feccia del Sud via da Lubiana
- Feccia del Sud go home
- VoidelSudviadaLubiana
- Una generazione borderline alla periferia di Lubiana
- Formazione di un giovane sciavo
- I dolori di un giovane sciavo
- Via, a casa!
- Feccia del Sud, via da qui!
Una curiosità: il titolo scelto nella traduzione inglese (di Gregory Timothy Čeh, soltanto on line, e non completa) consiste di quello che per noi è il sottotitolo: Southern scum go home!.
Casa / Hiša: E qual è stata, in generale, la Sua strategia di traduzione nel trasporre il lessico di Fužine in italiano; come ha «risolto» lo slang dei dialoghi, i neologismi morfologici, le invenzioni linguistiche e le diverse altr sfumature?
Raveggi: Avevo preso, via via che traducevo, delle note relative a questo e a quel problema. Molti traduttori tengono diari di traduzione, annotando giorno per giorno le problematiche affrontate e il modo in cui le hanno risolte (per esempio et si licet magna componere etc William Weaver lo ha fatto per Il nome della rosa, e per gli altri titoli di Umberto Eco, e comunque corrispondeva regolarmente con lui, così come tutti gli altri traduttori, per i quali addirittura Eco aveva approntato un elenco di suggerimenti).
A valle del processo di traduzione, quando ormai al libro mancava solo la postfazione, e tenendo a mente quello che Leopardi sosteneva a proposito dell’arte della traduzione: «Del modo di ben tradurre ne parla più a lungo chi traduce men bene», [e infatti Leopardi non produsse mai un saggio sull’argomento, che pure gli stava molto a cuore] mi sono interessata alle capillari descrizioni che del processo traduttivo sono state date negli ultimi anni dagli studiosi dei cosiddetti Translation studies. In particolare, grazie ai due recenti volumi di Pierangela Diadori Verso la consapevolezza traduttiva e Teoria e tecnica della traduzione ho riconosciuto come mie alcune delle strategie e tecniche descritte.
Sulle questioni: «in che modo conservare il senso dell’originale e rendere il testo tradotto ugualmente significativo per i nuovi destinatari?» e «come trattare quanto non è familiare ai destinatari: omologarlo? Oppure giocare sullo straniamento?», «E per ovviare alle (in questo nostro specifico caso immense) perdite, è lecito compensare e in che modo?» ho constatato di aver scelto di dare la priorità al prototesto (alla connotazione sulla neutralizzazione, allo straniamento sull’addomesticamento) cercando di mantenere il più possibile le specificità e quindi usando un atteggiamento »centripeto«, che riconosce la diversità della cultura del prototesto nell’accostarla a quella italiana; l’italiano »medio« è neo o substandard, colloquiale, di registro basso; ho usato diffusamente la tecnica del »prestito« (integrale e adattato) riproducendo parole del prototesto nel metatesto, che infatti risulta »mescidato« da inserimenti di »macchie di colore linguistiche«, forestierismi, slang giovanile, dialoghi sgrammaticati e scorretti (»devianza linguistica« e »idioletti substandard«), anche per compensare il non aver potuto rendere – ricorrendo ad altra lingua o dialetto – le moltissime parti in bosniaco (serbo, croato, e altro) e ciò per rispetto verso la dimensione narrativa e l’accessibilità al testo. Sempre per compensare la perdità della densità linguistica ho introdotto molti modi di dire e proverbi in aggiunta ai molti già presenti nell’originale.
Molti problemi pratici sono stati risolti caso per caso; un paio di esempi: capitolo Zakaj sem nehal trenirat (Perché ho smesso di allenarmi, p. 44 Čefurji raus!) »To je sramota, da lahko taki medvedki trenirajo na Slovanu.«
Il termine medvedki, cioè ‘orsetti’, si riferisce ai raggruppamenti scout in Slovenia di bambini tra i 7 e gli 11 anni. Gli ‘orsetti’ sono i bambini, e le ‘piccole api’ sono le bambine. Tutti portano al collo un fazzoletto rosso dal bordo giallo.
Un classico esempio di «realia» incomprensibile ai destinatari del metatesto se non opportunamente traghettato, non solo con la modifica di «orsetti» in «lupetti», ma anche con l’aggiunta di una Nota esplicativa nell’Apparato di Note alla fine del testo.
Cefuri raus!, p. 43: «E’ una vergogna che lupetti simili facciano gli allenatori allo Slovan»
Nota: Gli scouts in Italia nella fascia più giovane vengono detti ‘lupetti’ con fedele traduzione dall’inglese ‘Wolf Cubs’. Il tutto ispirato al Libro della giungla di Rudyard Kipling e alle avventure di Mowgli (le cosiddette Storie di Mowgli, il cucciolo umano allevato dai lupi).
Capitolo Zakaj je slovenska policija v pizdi (Perché la polizia slovena è fottuta) p. 53, Čefurji raus! »… in takoj začnejo padat šake jake.« «…e subito cominciano a piover busse nelle parti basse.» (p. 51, Cefuri raus!) con alterazione del significato volta ad un ampliamento e rafforzamento del messaggio (per tutto il capitolo si insiste su come la polizia picchi nelle parti più sensibili ma in modo da non lasciare tracce) e inoltre con un’assonanza che echeggia quella dell’originale. Analogamente, in Zakaj je Radovan prišel v Slovenijo, p. 57, Čefurji raus!: »Ma nek ide u … Itak mi gre tale caikič kurčič že na jetra« «Ma che vada a … Comunque mi dava già sui nervi questo stronzo di un bronzo» (Cefuri raus!, p. 54). I termini per indicare i poliziotti e la polizia sono molto numerosi in sloveno e in questo testo (kapsi, plavci, cajkiči, panduri) come in italiano (in questo testo: pulotti, sgherri, piedipiatti, puffi in blu, bronzi, celerini, la madama), qui ho cercato di riprodurre, con sonorità diversa, l’assonanza del testo. Zakaj mi gre Slovenija na kurac, Čefurji raus!, p. 66 »… pa vsak je najebao ko žuti« / «…non hanno neanche più gli occhi per piangere», Cefuri raus!, p. 62.
Come indicazione generale, e dovendo scegliere tra le varie possibilità, mi sono indirizzata verso la traduzione che mi è sembrata la più adeguata (non la migliore) (Diadori, p. 3). Chiunque si accinga a tradurre un testo di letteratura, del resto, lo sa che prima di tutto è necessario analizzare il prototesto, individuarne gli elementi fondamentali e caratterizzanti, le varie coordinate (socio-linguistiche secondo gli assi di variazione socio-linguistica/dia-cronica, dia-topica, dia-mesica, dia-fasica, dia-stratica/; spaziali, temporali, di testo e contesto, psicologiche, la dominante e le sottodominanti), e iniziare la riscrittura solo dopo aver penetrato il senso e aver colto- oltre ai valori denotativi- anche i valori connotativi, il non detto, il sottinteso, le conoscenze condivise tra Autore e suoi destinatari, ma non dai nuovi destinatari del metatesto, in una parola, il messaggio che esso vuole trasmettere e che va adattato al contesto culturale in cui il metatesto andrà a inserirsi.
Le tecniche di trasferimento dal protesto al metatesto sono numerose: cancellazione, amplificazione, ma si tratta sempre e comunque di un processo circolare, di va-e-vieni, un continuo rimando tra le ipotesi interpretative e la ricerca nel testo di conferme o smentite a tali ipotesi, che vanno verificate, perfezionate, e anche riviste e modificate, come sempre accade alle ipotesi di lavoro. Il criterio di fedeltà nella traduzione è ampiamente superato, ovvero per fedeltà si intende la capacità di negoziare passo per passo la soluzione che pare più giusta. Dunque negoziazione continua, e lealtà traduttiva, come senso di responsabilità di chi traduce verso il testo originario (il prototesto) verso il suo autore e verso i nuovi destinatari, coloro che riceveranno il metatesto in una situazione culturale diversa.
Ogni traduzione di testi letterari è una sfida, destinata a sconfitta inevitabile, raramente chi traduce è in condizioni di esprimere tutte le dimensioni del testo, il suo lavoro implica pertanto una continua rinuncia e molti e meditati sacrifici; nella perenne nostalgia o invidia dell’irraggiungibile felicità verbale dell’originale, che è solo quella e non può essere altra, mentre la traduzione le arranca dietro a distanza più o meno ravvicinata, consapevole della propria insita fatale variabilità. «A un dato testo non corrisponde mai un’unica traduzione, bensì tante quante sono le traduzioni possibili» (Diadori, 2012).
In questo caso l’Autore ha ri-creato il parlato della borgata di Fužine in un flusso di suoni, una «colonna sonora verbale», un impasto multiforme, eterogeneo di sloveno, lingue balcaniche, slang e socioletti che si ispira al «sound del linguaggio parlato» (Pier Vittorio Tondelli, Opere II, Mestiere) ma non ne è una diretta mimesi né una registrazione. Tanto più problematico il mediare e traghettare «altrove», in un’altra lingua ancora da inventare, la carica espressiva di questa lingua che non esiste, che è essa stessa il messaggio che l’autore trasmette, nonché protagonista primaria del libro.
La soluzione che è sembrata più consona all’originale è stato di piegare volta per volta la lingua di destinazione alle diverse funzioni comunicative ed espressive richieste dalla narrazione. Senza mettere a rischio l’accessibilità, la comprensibilità per chi legge, ma seguendo la linea di una eco del parlato: un parlato talvolta volutamente manipolato e sforzato, di registro colloquiale ma non dialettale. Le frasi apoftegmatiche di Radovan, che Marko fedelmente reitera dentro di sé come un controcanto di riflessione su e guida all’agire, sono state lasciate in italiano, eliminando le tentazioni di colore dialettale. Le imprecazioni, ingiurie, invettive e insulti sono lasciati quasi ovunque nel testo in originale (pička/pizda/ pizdica/ ti materina, jebem ti, jebem jim etc nelle loro numerose varianti) ma con la traduzione di seguito ad esplicitarle.
[E’ bene fermarsi un momento a riflettere sul turpiloquio e sul linguaggio triviale: le brutte parole, osserva Diadori, rientrano a pieno titolo nel linguaggio colloquiale e rappresentano un chiaro segnale di caratterizzazione diafasica, essendo sensibili all’argomento e al contesto situazionale. Sia gli eufemismi che il turpiloquio sono fenomeni linguistico pragmatici comuni a tutte le lingue e variano da cultura a cultura, creando seri problemi di traduzione. – Diadori, p. 232; e U. Eco, a proposito del turpiloquio nel suo romanzo Baudolino ribadisce: «… le oscenità appaiono nel testo (Baudolino) quando i personaggi popolari parlano tra loro e usano modi di dire e imprecazioni dialettali». – Eco, p. 132. Vale a dire che le bestemmie e le espressioni oscene di cui l’italiano e le lingue latine in genere sono ricche connotano origine e livello sociale del parlante, possono suonare sconvenienti ma non inusuali.
Inoltre: «Il turpiloquio è caratterizzato da un continuo rinnovamento, visto che le brutte parole – come gli eufemismi – perdono via via la trasgressiva e negativa carica emotiva iniziale, si desemantizzano». Diadori p. 233.]
Il fužinese dei cefuri che hanno dimenticato le loro lingue materne senza però cavarsela con lo sloveno, è stato reso sulla falsariga del parlato di immigrati di varia provenienza ascoltati in occasioni diverse (Piazza Vittorio a Roma ma non soltanto)[i]. Alcuni dialoghi di Ranka e Radovan in bosniaco sono stati trasformati in italiano deformato ma comprensibile[ii]. I dialoghi dei cefuri giovani, nel loro slang lubianese avaro di vocali, sono resi con il massimo di riduzione vocale applicabile senza che risultassero toscaneggianti: un italiano con infrazioni alla grammatica tradizionale, approssimativo, con abbreviazioni e cesure[iii].
La sintassi del narrare di Marko è volutamente semplificata, ripetitiva e costellata di iperboli (nell’iterarsi di pa to, »e storie così« e stari »vecchio«, nelle continue esagerazioni verbali e in generale nella non convenzionalità del linguaggio è distintamente percepibile una eco dell’eloquio irto di pittoresche iperboli del giovane Holden, narratore e protagonista, nel romanzo cult che negli anni ‘50 ebbe un dirompente effetto di shock linguistico negli Stati Uniti e poi in Europa, The Catcher in the rye, – prima traduzione slovena nel 1966; i periodi sono brevi, per lo più paratattici, ignari di consecutio temporum, e appiattiti su presente per il futuro e imperfetto ipotetico; tra i tratti linguistici il che polivalente, lo scarso uso del congiuntivo, i clitici obliqui dativali singolare («le») e plurale («loro»), soppiantati dal sincretico ubiquo «gli», tra i molti fiori del parlato, frequente la ridondanza espressiva «a me mi», «a te ti» …; molti i prestiti, soprattutto ma non soltanto inglesi, trascritti foneticamente (no chance no scians / too much tu mac / buzz beater bazbite / to fight fait / fucking shit fakin scit / chauffeur sciofer/ clochard closciar / my life mai laif / fan fen / to shake sheik / show sciò / hartatek heart attack / sandwich sendvic / training trening / full ful / cash kesc / business biznis / pusher puscer / feeling filing / baseball beisbol etc.) etc.
Nel complesso, si attinge al cosiddetto «linguaggio giovanile» (LG), fenomeno che a partire dagli anni Sessanta è stato attentamente studiato e documentato in Italia con raccolte di materiali lessicali provenienti in prevalenza da fonti remote (letterarie ma non solo: musica, canzoni, cinema, radio&tv), e repertori lessicali online.
Infine, per ancorare il discorso introduttivo alla prassi traduttiva, esemplificando la varietà di lingua detta Linguaggio Giovanile, e anche per dare un’idea dell’atmosfera e dello spirito che anima il libro, un esempio di traduzione del testo:
Cefuri raus! Feccia del sud via da qui, Forum Editrice Udine, 2015, Capitolo Perché le cefure da piccole sono dei mostri, pag. 112 (Marko, cestista diciassettenne e voce narrante, racconta le sue riflessioni sulle cefure da piccole):
Male čefurke so mene od vedno najbolj nervirale. One so taki monstrumi, da to ne moreš verjet. Boga pitaj, zakaj so takšne, ampak takšne so in pika. Saj potem se umirijo, ko odrastejo pa se poročijo pa dobijo klince pa to, samo od dvanajstega do osemnajstega leta so pa užas živi. Ne jebejo one žive sile in samo meljejo neke svoje glupe priče in ne moreš se jih rešit v lajfu. In ko sem sedel na dvajsetki in se fural domov na Fužine in sem videl tisto Makarovićko od Acota, kako je prišla gor na bus, mi je pao mrak na oči. Vedel sem, da me bo zdaj začopatila in da me bo udavila do Fužin. Hotel sem že spizdit dol z avtobusa, a je model zaprl vrata in speljal. Ona pa me je uočila in doletela do mene.
“A nisi ti od Acota kolega, a ne?”
Kaj se delaš, da ne veš. Aco jih je prav zbiral. On je hodil s takimi napornimi čefurkami, da to svet ni videl. Ena gora od druge. Ampak Makarovićka je bila pa največja mora. Saj je kar v redu zgledala, ampak ona ni zapirala ust od jutra do sutra. Stalno nekaj. In potem jo je Aco pustil, in zdaj ga ganja in kliče in govori svašta po Fužinama in ne vem kaj še.
“Pa dej povej Acotu, da me pokliče, a prou? K mu morm neki povedat! A boš mu povedu, matere ti? A si ti Marko, a ne? Kako se že pišeš? Đorđić? Saj moja matka pozna tvojo matko! A si bil ti sošolc od Acota v osnovni? Dej, res mu povej, da me pokliče, k mu morm neki povedat. A si boš zapomnu? Dej, res nemoj zaboravit! A ti hodš na Center strokovnih, a ne? Sej vem, k si bil od Burića sošolc. Jst sm hodila z njim, sam mi je model dosadival.
Le cefure da piccole mi hanno sempre dato sui nervi. Sono dei tali mostri che non è da credere. Diosololosa perché sono così, ma sono così e punto. Con il tempo si calmano, crescono, si sposano e hanno i bambini e storie così, ma dai dodici ai diciotto sono un vero disastro. Non gli frega di nulla e di nessuno, macinano non stop le loro storie farlocche e non ti si smollano di dosso in laif, non c’è verso. Andando a casa, ho preso il 20 per Fužine, e ho visto che ci saliva la Makarović di Ale; mi sono sentito svenire. Lo sapevo che mi avrebbe agguantato e tafanato fino a casa. Ero lì per saltar giù dal bus ma il tipo ha chiuso le portiere ed è sbrummato via. Lei mi ha locchiato e si è precipitata da me.
«Nn sei un compagno di scuola di Ale, tu?»
Fai anche finta di non saperlo… Certo che Ale se le sceglieva proprio a puntino. Usciva con delle cefure così pese che non se ne vedono al mondo. Una peggio dell’altra. Questa Makarović, però, era certamente il peggiore degli incubi. Come aspetto non era male, ma non chiudeva bocca da mattina a sera. A nastro, sempre qualcosa. E poi Ale l’ha mollata e ora lei lo perseguita e lo chiama e ne dice di tutti i colori per Fužine e non so che altro ancora.
«Dai, digli a Ale che mi deve chiamare, okappa? Che gli ho da loquargli, a lui! Positivo che glielo dici, eh, caro mio? Tu sei Marko no? Come fai di cognome? Ðordić? Eh, la mamma mia conosce la mamma tua. Eri compagno di scuola di Ale alle medie? Dai, sul serio digli che mi foni, che gli ho da loquargli qvalche cosa, a lui! Te lo ricorderai? Guai se te lo dimentichi! Tu freqventi il Centro Tecniche, vero? Lo so, eri compagno di Burić. Io ci sono uscita con lui ma era un tipo di un palloso…»
Nel lessico della piccola cefura si notano i termini farlocco per ingenuo, poco serio, poco importante; okappa per ok; positivo per certo, sicuro; fonare per telefonare; loquare per dire.
Qva e qve imitano la pronuncia degli slovenofoni dei gruppi qua e que.
Le frasi sono brevissime, imperative o interrogative, tutte paratattiche. Il registro è colloquiale triviale.
La parte narrativa è semplice, vi dominano la paratassi e le iperboli (mostri, non ti si smollano di dosso in laif, così pese che non se ne vedono al mondo, un incubo, un disastro, stavo per svenire.). Nel lessico, smollarsi di dosso per togliersi di torno, andarsene, agguantare per incollarsi, imporre la propria presenza, tafanare per tormentare, importunare.
Diosolosa è una parola-macedonia (un mot-valise), di cui si trovano altri esempi nel libro (piccolocalvomezzatacca).
Nn= non, è un espediente per rendere la riduzione vocalica dello slang lubianese; in italiano nn è molto usato negli sms, ma anche in testi letterari (cfr. Cuore nuovo di Luana Modini, Anteprima 2007)
«e storie così» (altra zeppa che si ritrova per tutto il romanzo) traduce »pa to« che a sua volta echeggia »and all that« da The Catcher in the rye, il romanzo cult di J.D. Salinger che negli anni Cinquanta ebbe un dirompente effetto di shock linguistico negli USA e poi in Europa; in Slovenia fu tradotto nel 1966; in Italia era stato tradotto per la prima volta come Vita da uomo nel 1952 e come Il giovane Holden nel 1961 da Adriana Motti; il titolo è stato mantenuto anche nella recente traduzione di Matteo Colombo per Einaudi (2015). Pier Vittorio Tondelli utilizza l’espressione «e storie così» come resa del »and all that« di The catcher in the rye.
Casa Hiša: Grazie mille.

Patrizia Raveggi
[i] Capitolo Perché i cefuri pisciano lungo la Ljubljanica, p.117
Là, lungo la Ljubljanica si vedono solo i cefuri anziani che con le mani dietro la schiena camminano rilassati e sportivi da Brodarac fino al castello di Fužine e rugliano.
«Qvanto male in schiena, da crepo.»
«Me mi ha prendo male su spina dorso, non posso mi alzo da letto.»
«E che male su testa qvesti ultimi giorni, tempo tropo sciuto, aria sciuta.»
«E ginochie! Un tromento. Io masagia con crema speciale, però no aiutare nente qvasi.»
E vanno avanti a sbrodare e, una volta ripassati tutti i dolori, i problemi, le possibili malattie e il resto delle rotture, tornano a casa. Jebem ti, ma al diavolo una vita così, passeggiare e lamentarsi. E in tana guardano la tivù e fanno le parole incrociate. Da andar fuori di cotenna. Io sbiellerei, loro invece se la scialano. Se ne sbattono i coglioni, loro, di tutto.
[ii] Capitolo Perché di domenica non mi alzo dal letto, p.25
Tra tutte, la cosa più stupida è sentire come Radovan e Ranka la domenica mattina si bisticciano. L’unico giorno che tutti e due sono a casa di mattina e doce doce si potrebbero in tranquillità bere il caffè insieme e guardarsi le vecchie puntate delle telenovele messicane, belli e in pace, ma no, loro due non si vanno a accapigliare per delle cretinate? Non solo, ma per non svegliarmi, litigano sottovoce, così io sento una parola qua e una parola là, nei momenti che Radovan non regge più e comincia a baccaiare. «Io poss’anche crepà, ma dev’esse come l’ai pensata tu! O no? È così o no? Rriconoscilo! Riconosciloooooooo! Jebo te bog, che ti fotta dio, ma che ti strafottaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!»
Seguono sussurri e mormorìi, e intanto tu sei lì che aspetti la prossima scarica, tuoni e fulmini.
«Ma no, non è così! Mi sentiiiii?»
Radovan strascica le finali nelle frasi, perché è al quel punto che Ranka si butta a capofitto con qualcuna delle sue. Ranka non si arrende. Va avanti per la sua strada. Aspetta senza una piega che Radovan si sia sgolato. Che abbia sfogato tutto quello che aveva da sfogare, e poi va avanti lei. Con Ranka non ci si fa. Lei Radovan l’ha già analizzato da capo a piedi e non so proprio perché lui si agiti tanto, visto che non ha nessuna scians di ottenere niente.
«E ‘a’ dito che ‘a’ metto la tegghia su baracone? L’a’ ditoooo?»
Evvai. Di nuovo i motivi più cretini. La teglia sul balcone. Radovan si incazza perché la sarma non è in frigorifero, ma sul balcone. È vero che è da sciroccati metter la sarma sul balcone, ma che uno si incazzi per questo è già da matticomio. In realtà tutto sta nel fatto che gli fa male la testa e deve sfumare la sbronza e ora gli ci va la sarma per colazione. Sticazzi, la sarma per colazione. Se non è da bosniaci questo, ma al massimo…
«L’a fato mai tu come io ‘a dito? Sì? Qvando? Qvando? Dilo, vai, dilo, qvando, diloooo!»
Ma che vada a farsi fottere.
Ora loro due sono partiti per un viaggio a ritroso nella storia. Faranno a pezzi il loro matrimonio, lo ridurranno ai minimi termini, e non esiste un beato cazzo in grado di rimetterlo insieme fino alla prossima domenica. E allora ricominceranno da capo a farlo a pezzi.
Ecco, per questo la domenica mattina non mi va di alzarmi.
[iii] Capitolo Perché è bene che ci sia stata una retata, pp 83-84
Alle volte è davvero bene che succeda qualche cosa, così c’è di che parlare. Soprattutto dopo una retata. Allora tutti lì a far la ruota, ognuno deve dire la sua, e il popolino si fa sentire, un full di gente che sa un full di tutto. Dejan poi in particolare, carico di notizie, come se fosse imparentato con Bole. Se se le inventasse tutte lui, sarebbe davvero un genio, se invece è qualcun altro che gliele scodella bell’e pronte, allora è proprio un deficiente a bersele!
«Jebem ti, all’anima il rottame! Ha’ visto te l’invalido! Io gli regg ‘a porta dell’ascensore, al poveretto, e lui a casina sua, si cura la verdura. Il verduraio cefur.»
«Sembra che sia stata una montatura.»
«Montatura col cazzo… ma se lo sapeva tutta Fužine di qvella bicocca piena di paglia.»
«Lo sai, te, qvanti ce n’è di tipi co’ ‘a tana piena di paglia? E nessuno li tocca?»
«Nn sono invalidi, però»
«E questo che c’azzecca, babbeo, che c’azzecca?»
«C’azzecca, c’azzecca, di lui nn avevano paura.»
«E di Bajr… di lui… per caso hanno paura? Dai, smetti di sparar cazzate, merlo.»
«Secondo me è stata ‘na camuffa. Loro c’avevano ‘na combina, lì, un traffico, e si so’ addentato a Tasić così il popolino nn si ammosca.»
«Già, giusto, te mangi pane e volpe. E lì, nel vostro palazzo, qvelli che traffico c’avrebbero avuto, furbone?»
«Ecchi’o sa.. di tutto e di più. Magari hanno piazzato qvalche telecamera e compagnia bella.»
«Sei proprio un rinco. Qvante ne spara, ma lo sentite. Davvero nn sei normale.»
«Ecché ne sai, te. Qvelli so’ ‘mpegolati in cento biznis. Nn ci vengono, loro, fino a qvi per Tasić.»
«E invece?»
«Ma te qve’ tipi, co’a roba confiscata, e tutt’a storia, lo sai che ci fanno?»
«No, che ?»
«La spacciano. E chissà ch’ieri’ ‘ n cantina se ‘ a so’ spacciata ben bene qvella roba e storie così, e ‘a gente s’è bevut ‘a retata. C’avevi pensato? Nn mi far prediche a me, te, nn sai un beato niente di niente. Te t’illudi ch’abbiamo ‘na madama che dà ‘a caccia ai krimi e cose del genere. Qvesto, vecchio mio, è un biznis terrifico. Da’ retta a me, vecchio mio. Qvelli tengono tutto sotto controllo.»
Probabilmente è colpa loro anche che Dejan debba sostenere l’esame di riparazione di mate. E che Adi ha l’herpes. Come se la godono tutti a parlare di qualche grande problema.
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